Lettera dall'America
Il bottone di Trump
I primi cento giorni di Trump sono stati un disastro: gaffe internazionali e promesse elettorali smentite. Senza contare lo spettro del conflitto nucleare con la Corea del Nord. Vissuto come un video game
Nella locandina italiana del film del 1964 il Dottor Stranamore: ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba, la “commedia-incubo”, come la definiva lo stesso Stanley Kubrik, si leggeva proprio sopra il titolo «La bomba ieri fantapolitica, oggi… quasi realtà. Questo film è la… fine del mondo!». L’intento del famoso regista era infatti di far percepire al pubblico la pericolosità che nelle mani del Pentagono e del presidente americano rivestiva il bottone che avrebbe sganciato l’atomica . Roger Ebert definì questa feroce satira della guerra fredda dell’epoca come «la migliore del secolo». In essa il grande Peter Sellers recita in tre ruoli diversi: quello del presidente, quello di un generale e soprattutto quello del dottor Stranamore che è certamente il più famoso e che è rimasto impresso nell’immaginario collettivo di ognuno di noi con la sua mano che non riesce a frenare il saluto nazista e con il suo vizio di chiamare il presidente americano Mein Furher.
Bosley Crowder nella recensione per il New York Times del 1964 scrisse che nonostante l’acutezza della commedia si sentiva turbato dal fatto che c’era «un sentimento di discredito e di disprezzo per il nostro establishment della difesa che arrivava fino a un ipotetico comandante in capo» vale a dire al presidente degli Stati Uniti. Ed era comprensibile che un giornalista dell’epoca si sentisse a disagio con la feroce satira nei confronti di tutto quanto il militarismo americano e soprattutto nei confronti dell’autorità massima del presidente degli Stati Uniti. Agli occhi dell’americano medio questo modo di ridicolizzare l’establishment rappresentava una sorta di resa nei confronti del temutissimo comunismo che in quegli anni denunciava il militarismo imperialista degli Stati Uniti. Anche se in questo film non si salvano certamente neanche i russi. Quelli erano gli anni, va ricordato, che precedettero i grandi movimenti pacifisti contro la guerra del Vietnam e contro tutti i conflitti che già stavano montando anche proprio in conseguenza della guerra fredda e dei continui allarmi che il conflitto sotterraneo pronto ad esplodere in ogni momento con l’Unione Sovietica presentava.
Ebbene, non si può fare a meno rivedendo quel film e rileggendo quelle parole di pensare all’attualità della sua tematica. Anche se oggi viviamo ormai in un’era post-ideologica che ha sconfitto le grandi visioni del mondo. Oggi che la guerra fredda è finita c’è tuttavia di nuovo quel pericolo rappresentato dalla possibilità che il famoso bottone possa venire schiacciato inaspettatamente in ogni momento – e con leggerezza – causando danni irreversibili all’umanità. La differenza con l’oggi, come fanno notare rispettivamente Serge Moscovici, in un vecchio saggio del 1981 parte del volume Psicologia delle minoranze attive, e Mario Perniola, che lo riprende nell’editoriale del prossimo numero 34 di Agalma intitolato significativamente Protestamur, sta nel fatto che oggi il male viene dall’interno. L’unica speranza risiede nella formazione di minoranze attive seppure esigue che svolgano attività di resistenza nei confronti delle aberrazioni del conflitto che si verifica tra il politico e l’economico, l’una come forma di nazionalismo, l’altra di globalizzazione diretta dalle centrali finanziarie. Contro tale conflitto Perniola invita a protestare.
L’occidente è malato, implode e non certo per colpa delle ondate migratorie. Basta pensare al fatto che per prima la sinistra ha perso il contatto con i ceti popolari e quel che resta della classe operaia. I loro voti sono andati e vanno ai partiti populisti europei guidati da Le Pen, da Salvini o addirittura da personalità come Trump che, seppure sostenuto dal partito repubblicano, è un “cane sciolto” e si muove con una relativa indipendenza, promettendo ciò che sa bene che non potrà mantenere. Le sue parole soddisfano i suoi elettori stanchi del predominio delle élite che continuano a flirtare ovunque con un’ala liberal ormai liquefatta.
La recente diatriba tra Trump e Kim Jong Un, il leader nordcoreano, rivela molto del Donald Trump pensiero. Le atomiche puntate in ambo le direzioni, le minacce di venti di guerra sono davvero preoccupanti. Inoltre, le parole dei due uomini ci fanno venire in mente più i litigi tra bambini che i rapporti tra due capi di stato che pur opponendosi frontalmente sono animati nel loro procedere da senso di responsabilità. In questo senso la “commedia incubo” di Kubrik è ancora attuale nella sua tragica comicità. Anche perché il presidente odierno degli Stati Unti rappresenta il trionfo dell’antipolitica dove non esiste alcuna forma di mediazione e nessun senso della rappresentanza popolare. E nessun senso della misura e della consequenzialità rispetto alle promesse elettorali.
Per limitarci alla politica internazionale, se guardiamo agli ultimi incontri di Trump con il premier egiziano, con quello giapponese, con quello cinese e da ultimo con il nostro primo ministro non possiamo fare a meno di notare innanzi tutto una sorta di disagio del presidente americano nei confronti delle situazioni ufficiali. E’ nervoso, annoiato, falsamente sorridente. Il suo linguaggio del corpo parla per lui. Non sa dove mettere le mani, non guarda i suoi interlocutori, non dialoga con loro. Insomma non è interessato. E poi ci sono i brevi commenti ufficiali di fronte alle telecamere che svelano una vena di vaghezza antipolitica: “We had a terrific meeting” “ We accomplished a lot” “We will have a great relationship”. Che niente ci dicono sui contenuti, sui negoziati, sulle rispettive posizioni, ma che tuttavia rivelano una vivacità che non appare dalle immagini di repertorio quando non è direttamente chiamato a parlare in prima persona. Emerge con chiarezza che non gli piace fare il politico, che non sa mediare e non gli interessa affatto di rappresentare la gente, di occuparsi dell’interesse comune. È solo l’interesse verso se stesso ad animare le sue parole e il suo narcisismo esasperato a guidarlo. È il riflesso di quello che potrebbe essere riassunto brutalmente nella celebre frase del Marchese del Grillo: «Io sono io e voi non siete un cazzo».
Ecco, l’idea che il presidente degli Stati Uniti possa essere descritto da queste parole effettivamente mi spaventa. Soprattutto perché rappresenta una grande novità per questo paese. Ha avuto infatti leader che sotto il peso di enormi responsabilità hanno deciso nel bene e nel male le sorti del mondo. Anche se devo dire che poi l’astuzia del “commerciante di granaglie” (senza offesa per questa categoria che però non è esattamente quella che eccelle nelle forme di rappresentazione degli interessi comuni e nel fare politica) vien fuori. Così Trump recede da certe sue posizioni estreme, poco popolari e soprattutto poco remunerative dal punto di vista del tornaconto personale. Ciò effettivamente lo guida verso posizioni più ragionevoli. Ad esempio dopo avere depurato il suo gabinetto da personaggi scomodi, troppo ringhiosi e controversi come Steve Bannon o Michael Flynn, adesso rivede il suo giudizio sulla Cina che da «manipolatrice valutaria» diviene una valida alleata nelle mediazioni con la Nord Corea; rivede la sua amicizia con Putin, e certe affermazioni sull’alleanza Nato che adesso ritiene necessaria. Perfino la sua critica a Obama che bombardò la Siria dopo che Assad uccise migliaia di civili e di bambini con armi chimiche è stata rivista quando ha fatto sganciare 59 missili Tomahawk su una base siriana. Ma queste correzioni di rotta a 180 gradi possono essere fatte perché non spostano di nulla il sentire del suo elettorato come invece avverrebbe se si trattasse del “bottone” dell’occupazione, dell’immigrazione, della riforma sanitaria, di quella delle tasse o della sicurezza dei confini.
I primi 100 giorni di presidenza sono un disastro dal punto di vista degli impegni presi in campagna elettorale e tradotti in pratica. Il suo rating approval e ‘ uno dei più bassi della storia americana. Clarence Page sul Chicago Tribune così spiega questo comportamento: «L’ossessione dei media fin dai giorni delle elezioni riguarda tutto ciò che Trump dice e la sua consequenzialità, mentre i suoi sostenitori invece si preoccupano di più di come li fa sentire. È la sua capacità di venditore instancabilmente ottimista e iperbolica a salvaguardare i suoi indici di gradimento, già a un record tra i più bassi per un nuovo presidente, dallo sprofondare ancora più in basso». E certo il recentissimo annuncio di Trump di voler smantellare il Nafta l’accordo economico di free trade tra gli Stati Uniti, il Canada e il Messico si muove nella stessa direzione. Infatti anche se non è stato ancora definito rispetto alle promesse elettorali, certamente non troverà soluzione immediata soprattutto a causa delle divisioni che si agitano dentro il partito repubblicano prevalentemente negli Stati che confinano a sud con il Messico e a nord con il Canada. E soprattutto non sarà radicale come annunciato.