A proposito di “False coscienze”
Storie dal disamore
Nella sua nuova raccolta di (bellissimi) racconti, Matteo Marchesini illustra con le sue storie emblematiche le coscienze di un presente incerto e precario che tende a frammentare ogni vita
False coscienze (Bompiani, 2017, pp. 201, euro 14) di Matteo Marchesini è un trittico di racconti, o meglio novelle, scritto con uno stile davvero colto, raffinato e letterario. La ferocia delle relazioni, dei risentimenti, dei raptus, dell’infelicità di cui i protagonisti sono artefici, specialmente nell’ultimo racconto, che arriva come una coltellata, fa riflettere sui rapporti umani del tempo in cui viviamo, precario e incerto su tutti i fronti ma soprattutto sul fronte affettivo.
Nel primo racconto, Eröffnungsfeier, vediamo una coppia alle prese con la propria autodistruzione borghese, ovvero falsificazione della fine di una storia, il non sopportarsi più e continuare a fingersi coppia. Il racconto si srotola intorno a una cena, con sommessa ironia si parla di cinema, letteratura, filosofia, politica, e di un tal «Gusto Rizzoli», che tornerà sul finire della storia, in una vicenda inquietante, che è una specie di risveglio.
Vivere come se tutto scivolasse, sotto la coperta di Linus che copre la realtà del denaro, dove si fa tutto ciò che costantemente ripropone un modello di convivialità e amabilità come un formato prestabilito, sotto il quale si celano irreparabili frane. Ma bisogna arrivare alla fine per scoprire cosa si celi nelle catene del disamore. C’è la paura di invecchiare, di riconoscersi le perdite nella pelle dell’altro, di rispecchiarsi in un noi che è già un non vissuto, non più. E qui viene narrato il non narrabile, scorticata la coscienza del restare. Forse solo una fuga può salvare dalla menzogna di una vita costruita sul presupposto della prestazione affettiva, erotica, intellettuale. Una prestazione senza oggetto e perciò anche di-soggettivata ma rivolta solo all’imperativo del dimostrarsi ancora vivi. O forse la fuga è una condanna, un perpetrare il gioco dell’imperativo categorico rovesciato. È agghiacciante riconoscersi perduti nella vita dell’altro se a suggellare tale perdizione non è un sentimento d’amore profondo, estremo, quasi sacro. Amore impensabile nel tempo presente, in cui ogni cosa e persona e sentimento sembra sacrificato sull’altare dell’avere, del dimostrare, anziché su quello dell’essere, per citare Fromm.
Il secondo, Rapida ascesa di B. Lojacono, è il racconto di un rapporto maestro-allievo, in cui l’ascesa del secondo sfugge completamente al professor Bordiga che inizialmente ne tesseva le lodi. Lojacono giungerà a un insospettabile successo, con grande meraviglia mista a invidia, ma un’invidia che non somiglia all’ammirazione quanto al disprezzo, dei colleghi di Bordiga. Nel momento in cui si viene a sapere che il romanzo di Bernardo Lojacono verrà pubblicato da un grande gruppo editoriale e lanciato con una infernale e precisissima manovra di marketing, accade un fatto singolare, uno smascheramento. Il professore Bordiga appare per un istante sotto una luce sinistra, e quel disprezzo, che aveva sempre mascherato cedendo alle lusinghe dell’allievo, emerge in tutta la sua ferocia. Ed è in questo preciso istante che l’adolescenza prolungata del XXI secolo finisce. Con questa agghiacciante rivelazione i giochi terminano e inizia la realtà.
I detrattori, per cercare una verità qualunque che giustifichi l’immeritato successo, s’intrufoleranno in casa sua per carpirne i segreti. Qui accade un doloroso rovesciamento che lascia trapelare un passato inquieto e un presente insignificante, persino nel fondo della sofferenza.
La coltellata vera e propria arriva con il terzo racconto, La voce del coniglio, in cui un figlio e una madre, in una ferocia edipica crescente, si scaricano addosso le incertezze di una vita, con rimandi al passato atti a ferire e dilaniare. Il movente è un invito a cena, da parte della madre, di una ex compagna del figlio. Il risuono dispotico di questa previsione di riconciliazione forzata di una relazione fallimentare, genera un costante trafiggersi reciproco madre-figlio, con senso di colpa e reciproca pretesa di monopolio del dolore. Fino agli esiti estremi cui l’autore ci consegna, senza salvarci con ipotetiche false morali.
Sono le coscienze di un presente incerto e precario a essere false e frammentate, non più in malafede, come voleva Sartre, ma proprio falsificate dall’impossibilità del dono, impossibilità a relazionarsi senza aspettarsi una pugnalata o una richiesta di risarcimento danni più dannosa della crepa stessa. Così il sociale cade in frantumi, frantumi di coscienze, di rapporti completamente falsati dall’instabilità del tempo presente, dall’incapacità di andare oltre la ricerca di plauso e consenso incondizionato.
Un ritratto spietato di un sociale in frantumi, a partire dalla sfera intima e affettiva. Un libro non facile ma assolutamente necessario. E non è semplice raccontare la sofferenza invisibile, molto più scontato ricalcare su notizie che, dalla politica alla cronaca, affollano i nostri media. Invece quella sofferenza invisibile che pervade il benessere (che ormai non è più benessere) va vista.
«Appena tornò nel corridoio, la madre gli sembrò alla stessa distanza di prima, ancora di spalle, davanti alla porta del bagno. La vide fare un passo, e di nuovo udì quella voce. Era come se anziché parlargli lo parlasse, col timbro della sicurezza, della dolcezza rassegnata, di un’intimità complice che lo condannava come una nemesi di cattivo gusto. Si asciugò la fronte sudata con la manica. Doveva occuparsi di lei. Farlo e basta. L’epoca delle proroghe era scaduta».
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La foto accanto al titolo è di Federico Tringali