Una biografia sull’Imperatore svevo
Riscoprire Federico II
“Stupor Mundi”, capace di suscitare ammirazione, timore e sconcerto, è una personalità che ancora sfugge alla comprensione degli studiosi. Adesso Silvana Fanzellu, senza alterare la visione storica fin qui praticata, aggiunge un tassello alla lettura del personaggio: il fattore umano
L’implacabile durezza che lo sguardo deciso e contenuto di Federico II di Svevia tradisce nelle immagini rimaste di lui, non toglie nulla alla grandezza della sua figura di uomo e imperatore. Per sopravvivere alla pesante eredità lasciatagli dagli Hohenstaufen e dagli Altavilla egli dovette affrontare prove terribili e non sarebbe certamente riuscito a raggiungere giovanissimo i fastigi del ruolo imperiale se non avesse avuto in sé qualcosa di terribile. Del resto l’ideale cui volle conformare se stesso nel corso della sua turbolenta esistenza fu, come è noto, quello del distacco e dell’impassibilità. Nel vivo e interessante ritratto di Silvana Fanzellu intitolato Federico II specchio del mondo – La grandezza e la caduta degli Svevi- La contesa tra il potere spirituale e il potere temporale (Tau editrice, 366 pagine, 25 euro), la figura di Federico si arricchisce di una dimensione più umana, ma non per questo meno affascinante, che aiuta a comprendere sotto quale maschera egli tendesse a celare la sua natura passionale e irruente.
Federico II, Stupor Mundi: fu così definito per l’ammirazione mista a sconcerto che suscitò nei contemporanei e non solo in loro. A prescindere dall’evoluzione dei concetti morali che, per quanto lentamente, si è verificata nel corso dei secoli, l’enumerazione pedissequa delle sue qualità, cui sono contrapposti “orribili vizi” – gli improvvisi accessi d’ira, l’abbandono ai piaceri sensuali, il cinismo dimostrato in più d’una occasione – rimane inalterata nell’ottica in cui è stato studiato nel tempo. Eppure, come scrive nella prefazione Francesco Morabito, «i frammenti splendenti di cui sono composte la sua persona, la sua vicenda, la sua personalità, ogni volta che lo studioso o il lettore provano a metterli in ordine per cercare di capire, una volta per tutte, stanno fermi per un po’, ma al piccolo giro successivo del meccanismo assumono l’ennesima forma nuova». In effetti niente sembrò impossibile al giovinetto italico che durante un’avventurosa cavalcata in Germania, appena diciottenne, aveva fatto risuonare, come fosse stato un magico nome, l’appellativo sprezzante di puer Apuliae che i principi tedeschi gli avevano dato.
Federico, come scrive l’autrice, «era abile nel cavalcare, esperto nell’uso delle armi, padrone di ben nove lingue, interessato a qualsiasi corrente culturale dalle lettere fino all’astronomia, alle scienze naturali e alla matematica, forte, agile e con un fisico ben proporzionato, fulvo di capelli, piacevole di aspetti e di modi…». Il suo carattere si era rafforzato negli anni ed egli aveva acquisito la consapevolezza di una concezione mistica del potere, pur restando un uomo del suo tempo. L’ideale dell’Impero che sempre sugli Hohenstaufen aveva esercitato un fascino irresistibile, su di lui assunse una dimensione sinistramente grandiosa. Si faceva chiamare il “divino” e la sua dimora divenne il “Sacro Palazzo”. Di fatto riuscì a esercitare un potere assoluto soltanto sui sudditi del Regno di Sicilia. La scintilla dell’ambizione non lo abbandonò mai, ma nella sua ascesa si trovò dinanzi un ostacolo insormontabile: il papato. Già Innocenzo III aveva mostrato al mondo conosciuto la sua determinazione di esserne non solo il capo spirituale, ma anche temporale. Il papa intendeva essere il padrone incontrastato della vita dei popoli. I sovrani del Portogallo, d’Aragona, di Bulgaria, di Polonia e di Boemia, erano a lui devoti e sottomessi. La scomunica era un’arma formidabile nelle sue mani e all’occorrenza il pontefice non esitava a farne uso. Con essa toglieva credibilità a qualsiasi sovrano, poiché scioglieva i sudditi dal dovere di obbedienza e inoltre li condannava dopo la morte alle sofferenze dell’inferno. La lotta tra Federico II e il pontefice si profilò dunque inevitabile e senza esclusione di colpi.
La corte siciliana tra il 1231 e 1239 diventò un centro di vita intellettuale rigoglioso, riflesso dell’autonomia spirituale e culturale del suo sovrano e punto di riferimento fondamentale per la civiltà europea dell’epoca. Federico II nutrì uno spiccato interesse verso la cultura araba. Palermo sotto una tutela pontificia vaga e lontana, era allora una città “da mille e una notte”. Inoltre l’atteggiamento rivoluzionario che egli ebbe nei confronti della natura, come dimostra il suo pregevole studio sull’arte della falconeria, mirabile per rigore scientifico e precisione analitica, era in netto anticipo sui tempi, gravati da una fede cieca nel disegno divino, che precludeva la possibilità di studiare la realtà come era e appariva. Ebbene con la stessa attenzione con cui seguiva il volo dei falchi, Federico si rivolse agli uomini e alle cose. Da ciò nacque il suo mito, solare per alcuni, demoniaco per altri, arricchito dalla tragedia degli ultimi anni della sua vita nei quali lui che non era mai rifuggito dinanzi al volto meduseo dei problemi, che era stato spietato e crudele contro chi si opponeva all’esercizio della funzione imperiale, che non aveva risparmiato se stesso né i suoi figli, si rese conto che non sarebbe riuscito a dare corpo al suo sogno.
Supportato da un’attenta, ricchissima iconografia, questa interessante biografia aggiunge un tassello in più alla bibliografia monumentale che riguarda questo straordinario, complesso, indimenticabile personaggio.