Pier Mario Fasanotti
A proposito di «Panem et circenses»

A tavola coi romani

Che cosa mangiavano i romani antichi? E come? E dove? Un saggio storico (con tanto di ricette) di Alberto Jori ricostruisce tutto: dai banchetti ai pranzi quotidiani dei soldati

Viviamo ormai in un delirio gastronomico. Giornali, periodici, gare televisive con i blasonati e ricchissimi masterchef (accalappiati da qualsiasi tipo di pubblicità): ovunque si parla di fornelli, quasi ci muovessimo in un dopoguerra semi-affamato. Quel che però manca è l’aspetto storico del desinare, che è pur parte della nostra cultura. Una gradevolissima e documentatissima eccezione la fornisce Alberto Jori, molto stimato e seguito all’estero. Nel suo libro Panem et circenses (edito da Nuova Ipsa, 471 pag., 49 euro), corredato da ricette antiche ancora oggi valide, l’autore racconta come e che cosa mangiavano gli antichi romani. Quelli che sarebbero diventati i padroni del mondo, in tempi arcaici erano molto frugali. Con il passare dei secoli i pasti, all’insegna del lusso, diventarono anche quattro al giorno. Per gli abbienti, escludendo quindi le grandi famiglie e i nuovi ricchi (di parvenus ce n’erano tanti) i pasti erano solitamente tre: il jentaculum (colazione della mattina), la cena (a mezzogiorno) e la vesperna (la sera). Alcuni davano retta agli igienisti e medici greci e sostituivano uno dei pasti con un semplice bicchiere d’acqua. I soldati, per non appesantirsi troppo, facevano ricorso al solo prandium di mezzogiorno.

Alberto Jori panem et circensesNon manca l’aneddotica. Ricordate Petronio col suo “Trimalcione”: un’abbuffata enorme, tipica del parvenus. Poi c’erano gli “imbucati” che – come oggi, del resto – approfittavano di una festa culinaria per poi sgattaiolare via. Plutarco racconta che molti a casa si tenevano a stecchetto, mentre si rifacevano alla grande quando venivano invitati. Oggi è in voga il cosiddetto “doggy bag”, un sacchetto dentro il quale si stipa tutto il cibo possibile (non solo per il cagnolino), per gustarselo a casa propria. Giovenale parla di tale Virrone, il quale era generosissimo con la propria gola dando agli invitati pane raffermo, pollame non proprio fresco, frutta andata a male e vino acidulo comprato all’ingrosso. Tutto all’insegna dell’avarizia. C’erano ovviamente i veri signori, soprattutto nella Roma repubblicana, che non facevano alcuna distinzione tra gli ospiti. Insomma, sobrietà come virtus.

Dove mangiavano i romani del ceto medio-alto? Originariamente nell’atrium, inseguito in una sala chiamata cenaculum. Tutti si sdraiavano nel triclinium. Un vero e proprio letto (lectus, o triclinia quando era a tre posti). Un’abitudine orientale: si sa che i Romani importavano di tutto: divinità, costumi, derrate alimentari. Mangiare sdraiati: una posizione che per noi risulterebbe scomoda, ma a quei tempi era condizione necessaria, segno di eleganza e di status sociale superiore. Le donne inizialmente s’accucciavano ai piedi dei mariti, in seguito fu loro permesso di sdraiarsi accanto agli uomini. I ragazzi si sedevano su uno sgabello, davanti al letto dei genitori. Nei giorni di festa era consentito anche agli schiavi assumere una posizione orizzontale. Tutto questo cerimoniale saltava quando si mangiava negli alberghi o nelle taverne. Il triclinio cosiddetto pompeiano (stibadium) consisteva di tre letti con al centro una tavola quadrata, ma sovente anche rotonda. Esisteva, manco a dirlo, il posto d’onore. Cicerone ne fa cenno: era situato nella posizione più centrale di tutte. Prima di cenare si toglievano i calzari e si lavavano i piedi. Sulla tavola, proprio come oggi, era posta una tovaglie ( mappae). Non esistevano le forchette, di origine serba o bizantina (ma scomparvero nel tardo impero).

cucina roma antica2I Romani afferravano il cibo con le mani. Per non sporcarsi troppo s’infilavano nelle dita ditali d’argento. Esistevano tuttavia il mestolo (trulla), il cucchiaino (ligula) e un cucchiaino a punta che serviva per le uova e i molluschi. Fatto sta, comunque, che si lavavano le mani a ogni portata. Le portate (fercula), nelle cene come quella di Trimalcione erano almeno sette. A cena finita seguiva una libagione cerimoniale, la commissatio, ossia vino che si doveva bere tutto d’un fiato. Capitava, per influenza ellenistica, che qualcuno si liberasse di fragorose flatulenze. L’imperatore Claudio, a questo proposito,. emanò un editto di tolleranza. Seneca e Plutarco si dicevano scandalizzati, soprattutto davanti all’abitudine di provocarsi ad arte il vomito, che però avveniva in una sala a parte. Era normale comunque il circolo vizioso consumo-vomito-consumo, così da mangiare il più possibile. Ai servi, ovviamente, il compito di pulire. A casa di un ospite raffinato che evitava il fasto più volgare, i commensali ricorrevano ad argomenti “alti”, vere e proprio conversazioni socratiche.

Nei primi secoli del dominio romano, la carne era un alimento eccezionale, salvo quella degli animali da cortile. Successivamente la carne divenne una sorta di diritto acquisito e, per il suo valore proteico, era distribuita gratuitamente al popolo, compresi i peregrini, cioè gli stranieri. L’imperatore Aureliano (II sec.) in cinque mesi distribuì circa otto chili di carne a ogni singolo cittadino indigente. A quei tempi Roma era una grandissima metropoli con 1200.000 di abitanti. L’imperatore Massimino rifiutava le verdure e consumava tredici chili di carne al giorno. I bovini erano piuttosto rari: si utilizzavano soprattutto per il lavoro nei campi. Lo stesso dicasi dei cavalli. Si faceva uso quindi di carne suina. Varrone sentenziava: «La natura ha donato il porco per banchettare. L’arte di insaccare, pur grossolana, venne molto dopo. Sulle tavole si ponevano porzioni di pecore e di capre. La parola pecus (pecora, appunto) si trasformò, come valore degli scambi in natura, in pecunia, vale a dire denaro. Ignorato era l’uso del burro, sostituito dall’olio, importato dalla Grecia e dalla magna Grecia. Sconosciuto anche lo zucchero, che la Polinesia esportava solo in Cina e in India: al suo posto il miele. E il sale? Ai tempi di Catone il Censore, lo stato assegnava a ogni famiglia una razione annua, che a noi pare eccessiva. Serviva per insaporire le focacce o il pane, che Orazio considerava nutrimento povero. Il primo a distribuire gratuitamente alla popolazione il sale fu il re Anco Marzio. I magazzini di sale erano perlopiù situati sull’Aventino. I Romani, per meglio assaporare i cibi e soprattutto il pane, ricorrevano all’acqua marina.

cucina roma anticaSi calcola che la vetta del mangiar bene fu raggiunta, secondo Tacito, tra la battaglia di Azio (31 d.C) e l’avvento dell’imperatore Galba (68 d.C.). Non mancarono i nostalgici, che ricordavano il lavoro dei pastori, necessariamente sobri a tavola. Nell’età di Tiberio, un certo Apicio scrisse un vero e proprio manuale, il “De re coquinaria”, antesignano di Pellegrino Artusi. Apicio elencava varie prelibatezze e lui stesso assaggiò gli scampi delle coste libiche e decise di portarne il più possibile a Roma, in navi stracolme. A partire dall’età dei Severi (dal 193 al 235 d.C) l’organismo statale cominciò a traballare, anche per la corruzione. Le regioni nordiche si erano impoverite, mentre quelle orientali (Bisanzio, poi Costantinopoli) accrebbe invece l’opulenza. L’impero occidentale romano subì poi le incursioni dei barbari, con la conseguenza che venne dato un colpo mortale al commercio marittimo. In molti casi si fece ricorso al baratto. La diffusione del Cristianesimo portò con sé una certa sobrietà, ma anche il proliferare dei vigneti per scopo rituale-religioso.

A questo punto il lettore si farà domande sul titolo del libri di Alberto Jori. Perché circenses? I giochi e le feste religiose erano accompagnate da banchetti. Il defunto, nella variegata religione romana, erano considerati presenti in tempi di libagioni. A lui era assegnato il posto vuoto. Lo stesso valeva per gli dei, il cui sgabello vuoto veniva ornato da mazzetti di erbe sacre. L’espressione panem et circenses aveva una forte accezione spregiativa: ai magistrati piaceva molto distribuire cibo ai poveri, così da potersene vantare. Le battaglie, spesso cruente, tra gladiatori al Colosseo, furono affiancati dai banchetti. Si tenga poi presente i ludi (giochi) in genere, arrivarono a superare il centinaio.

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