Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Scoprire Zagajewski

Racconto di un incontro con il grande poeta polacco Adam Zagajewski, premiato la scorsa estate a Urbino. Un misto di umanità e spirito, confluiti in un libro prezioso

Nel giugno del 2016 Adam Zagajewski ha ricevuto il Sigillo di Ateneo dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo dalle mani del Rettore Vilberto Stocchi. Per l’occasione, il poeta polacco ha donato dieci liriche tratte dalla sua ultima silloge Asymetria, ancora inedita in Italia. Con il traduttore Marco Bruno abbiamo, poi, pensato di inserire anche la prosa giovanile Forte come Beethoven, dotata di grande energia narrativa. La consegna del Sigillo e la tavola rotonda – che ha visto relatori Roberto Mario Danese (Università di Urbino), Salvatore Ritrovato (Università di Urbino) e Daniele Piccini (Università per Stranieri di Perugia) – è avvenuta nella Sala Convegni Serra d’Inverno, antistante al giardino d’inverno del Palazzo ducale di Urbino.

Il torrido sabato di giugno, «nel grigio edificio dall’interno perlato», non ha impedito a molti studenti e amanti della poesia di ammirare – e serbare nella memoria, come un cristallo puro – le parole di Zagajewski: la luce del suo ethos, legato al «filo inafferrabile dell’universa vita», per dirla con Luzi, ha presto commosso la platea. Il reading letterario, a cura de La Resistenza della Poesia, quale nucleo associativo del nascente CTU Cesare Questa, ha impreziosito una giornata all’insegna dell’incanto e della riflessione. Alla fine della conferenza e della consegna del Sigillo – avvenuto nella piena considerazione dell’etichetta accademica – l’insigne ospite ha concesso una videointervista, bella e significativa, ai curatori del blogazine di Ateneo #Uniamo, proprio sotto la fulgida alternanza luce/ombra del giardino d’inverno.

Ci sporgemmo dalla balaustrata per osservare meglio la città brulicante. Era l’ora dell’aperitivo, le chiome degli alberi svettavano imperiose. Tutto è nato, pensai, da un semplice scambio mail-epistolare con Adam. Gli scrissi dopo aver scovato per caso il suo indirizzo di posta elettronica tra quelli del Dipartimento di letteratura della University of Chicago. Era la fine di settembre del 2015. A Urbino il chiarore settembrino è davvero estatico. La strada che congiunge il Polo Volponi al Giro dei Torricini, contornata da ippocastani, nell’attimo del tramonto, è toccata da colori quasi giotteschi. Dopo un paio di giorni in trepida attesa, Zagajewski rispose così:

Dear Alberto,
What a pleasure to hear from a young and fervent poetry lover (and a poet as well, I assume)!
Give me a little time, I’ll certainly answer your three questions – right now I’m in the Peloponnese, swimming and forgetting (sometimes) that I’m a poet. Best,
Adam

ZagajewskiNulla da aggiungere in relazione alla sua umiltà, o anche alla capacità – segno dell’altezza d’animo tipica di un grande poeta – di relazionarsi con uno sconosciuto giovane italiano, quasi gli fosse concesso porsi sul suo medesimo piano. Seguì una corrispondenza degna delle Epistulae ad Lucilium, forse con minore enfasi, ma con eguale spessore. Il sospirato arrivo a Urbino – Zagajewski era sulle tracce di Piero della Francesca – fu al cocente sole di mezzogiorno. Con Michele Pagliaroni e Roberto Danese accompagnammo Adam e Maja Wodecka, sua moglie, all’albergo San Domenico. Non ricordo molto dei primi istanti di conversazione, per due ragioni: la comprensibile emozione e la scarsa applicazione verbale (ormai proverbiale) della lingua inglese. Se si considera che, in tali frangenti, l’emozione pregiudica ulteriormente le conoscenze linguistiche, direi che la mia performance iniziale tendeva ad un cauto mutismo. E non migliorò, se non in virtù di un “inglesiano” – simile al Montale delle Lettere a Clizia – contornato di inedite gesticolazioni a carattere meridionale, che Adam miracolosamente comprendeva. A cena parlammo di Leopardi (che lui conosce bene), Pirandello, le traversie amorose di Eusebio, Vermeer, Piero della Francesca, Morandi – il pittore –, lo spirito lieto e affabile di Seamus Heaney, l’esultanza di Dereck Walcott nel leggere in taxi Andare a Leopoli («Leopoli è ovunque») e il parallelo con Luzi. E soprattutto le poesie dedicate alla madre che facevano piangere me, Maja e la traduttrice inglese delle sue opere, in un concerto europeo di commozione.

Tormentone della serata alla Fornarina, ristorante situato quasi in cima a via Mazzini, nel cuore del centro storico dunque, fu l’ironico «Ba-sta!», proferito da Adam ad ogni mio esagerato elogio. Il giorno successivo i nostri amici ammirarono l’enigmatica Flagellazione di Cristo di Piero e la Città ideale, umanizzata dalla sola presenza di portoni e finestre semiaperte, sotto la guida di Peter Aufreiter, direttore della Galleria Nazionale delle Marche. La sera Adam volle offrire a La Resistenza della Poesia – della quale lodò il nome – una cena alla Tenuta Santi Giacomo e Filippo. Sulla via del ritorno, mentre le curve annerite dall’assenza di barlume ed empite dai richiami dei rapaci blandivano il sonno di Maja, Adam mi guardò dicendo: «Alberto is thoughtful…». Qualche lucciola ubriaca rischiarava debolmente il percorso. Gli domandai da cosa lo arguisse. Rispose, solo, lucidamente: «Maybe, my arrival in Urbino and these things are willed by God…».

(Dall’introduzione ai contributi critici situati nel secondo volume della plaquette)

***

Di mia madre nulla saprei dire –
come ripeteva, rimpiangerai un giorno,
quando non ci sarò più, e come non credevo
né nel “più”, né nel “non ci sarò”,
come mi piaceva guardare, quando leggeva un romanzo alla moda,
sbirciando subito l’ultimo capitolo,
come in cucina, reputando che questo non è per lei
il luogo adeguato, prepara il caffè domenicale,
oppure, ancora peggio, i filetti di merluzzo,
come attende l’arrivo degli ospiti e si guarda allo specchio,
facendo quella faccia che la proteggeva efficacemente dal
vedere realmente se stessa (cosa che, pare,
ho ereditato da lei, insieme ad alcune altre debolezze),
come poi disinvoltamente disserta di cose
che non erano il suo forte, e come io scioccamente
la stuzzicavo, come in quella occasione in cui si
paragonò a Beethoven facentesi sempre più sordo,
e io dissi, crudelmente, ma sai, egli
aveva talento, e come tutto mi perdonava
e come io lo ricordo, e come volavo da Houston
al suo funerale e in aereo veniva proiettato
un film comico e come piangevo di riso
e di rimpianto, e come non ero in grado di dire nulla
e continuo a non esserlo.

—–

Adam Zagajewski, «Il “fuoco eracliteo” nel giardino d’inverno. Dieci poesie una prosa cinque contributi critici, II voll.», a cura di Alberto Fraccacreta, traduzioni di Marco Bruno, Raffaelli editore, con il patrocinio dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo

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