Incontro con lo scrittore francese
Parole e gramigna
Pierre Michon ha vinto il premio Nonino: «Quando cominciai a scrivere la modernità aveva ancora un senso. Ormai siamo nella post-modernità, nel magma dell’indifferenziato»
Ha la camicia in tessuto jeans e un maglione color della terra d’inverno. Parla poco, sorride appena, arrossisce di fronte a qualche domanda che lo rimanda al suo privato. Eppure Pierre Michon, lo scrittore nato nel ’45 nella provincia francese, la Creuse, il suo privato più profondo l’ha raccontato con sincerità e tanta raffinatezza letteraria che meriterebbe il Nobel, se non fosse che Stoccolma l’ha dato appena due anni fa a un altro francese, Modiano. Intanto però Michon ha appena ricevuto a Percoto, nella brumosa campagna dell’Udinese, un premio prestigioso, e schietto come la sua ispirazione, il Nonino Internazionale 2017. Chissà se gli porterà ulteriore gloria, visto che i riconoscimenti assegnati dalla famiglia della grappa più famosa nel mondo hanno spesso anticipato gli allori distribuiti dall’Accademia di Svezia.
Proprio in Friuli abbiamo incontrato Michon. Mentre gli alambicchi esalavano i fumi materni dell’acquavite, egli, sul palco, riceveva il Premio dalle mani di uno dei giurati, Claudio Magris. Che puntava la prolusione sul libro-capolavoro (finora) dell’autore francese: Vite minuscole, opera prima, pubblicato da Gallimard nel 1984, uscito in Italia per Adelphi soltanto lo scorso settembre, nella traduzione smagliante di Leopoldo Carra. Un libro esemplare, di un autore a sua volta esemplare in questo voler guadagnarsi da vivere con la letteratura e però parco nello sfornare titoli (uno ogni due-tre anni) e altrettanto avaro nel salire sulle passerelle.
Vite minuscole sono quelle di gente senza eco, sconosciuti abitanti di un territorio povero. Contadini, come i nonni di Michon. Maestre, come la madre che lo ha nutrito dei libri letti nella dimora avita che affaccia sull’orto. Padri di famiglia, abituati all’aratro e al fucile da caccia, brutali nel senso di istintivi, senza filtri né sovrastrutture. Nel giro breve del racconto (“Un modo per controllare la scrittura, l’impalcatura del narrare”, dice l’autore) compongono il puzzle della vita di monsieur Michon, anche lui perfetto sconosciuto fino ai quarant’anni e passa, quando diede alle stampe il libro d’esordio. Sono, questi protagonisti minimi, André Dufourneau, trovatello adottato dai nonni dello scrittore per aiutare nei campi e insieme per fare un’opera buona; o i Peluchet, ascendenti del Nostro, il quale eredita la cosiddetta Reliquia, una madonnina con bambino passata a tutte le madri di famiglia nel momento del parto, e a tutti gli anziani di famiglia, nel momento del trapasso. Ecco, nascite e morti, matrimoni e addii di chi parte in cerca di esotica fortuna o perché un padre rude lo caccia di casa. Si intessono dei tempi inevitabili di ogni esistenza queste “vite minuscole” che tuttavia non pretendono di raccontare davvero nessuna persona, perché – ricorda Claudio Magris citando il francese della Creuse – nessuno sa chi è davvero ciascuno di noi.
Monsier Michon, come mai un esordio letterario a quarant’anni. Eppure lei, prima, non faceva altro lavoro…
È successo un inverno, dopo aver rivisto l’orto di mio nonno Felix. Era invaso dalla gramigna, eppure lui, che aveva coltivato la terra tutta la vita, aveva speso là le ultime forze. Prima io avevo fatto prove di scrittura. Drammaturgia, con un gruppo di teatro sorto nel Sessantotto. Poi il tempo della contestazione finì e finirono anche gli agit-prop. Io pensavo però che dovessi scrivere – e infatti scrivevo molto, senza avere il coraggio di propormi a un editore – come un autore d’avanguardia, in modo intelligente, universale, aperto a tutto. Volevo essere così per svincolarmi dal mondo che mi aveva formato, che era il contrario: contadino, provinciale, scialbo. Ebbene, proprio osservando quell’orto abbandonato mi convinsi che sarei dovuto partire da lì, dal mondo contadino di Limousin. Senza voler fare l’intellettuale per forza. Solo cominciando da quel particolare potevo accedere, eventualmente, all’universale.
Ma quando è nata in lei la vocazione della letteratura?
Da bambino. Mia madre mi leggeva storie fantastiche, che mi proiettavano in un mondo dilatato, esotico, meraviglioso. C’era un abisso: da un lato la mia realtà confinata in un posto lontano da tutto, dove nulla sembrava succedere. Dall’altro un universo sensazionale, nel quale tutte le avventure erano possibili,ogni cosa poteva avvenire. Allora mi proposi di crearle io, come un demiurgo, quelle vicende fuori dalla norma, quegli eroi.
E perché, poi, non ha continuato a scrivere per il palcoscenico?
Perché non ci sono riuscito. È successo anche quattro-cinque anni fa, allorché mi è stato proposto di lavorare sulla figura di Faust. Ho rinunciato, non è il mio taglio letterario. In effetti, nei miei libri ci sono pochissimi dialoghi.
Non l’ha tentata neanche la poesia? Eppure il suo stile è pregnante e allusivo quanto quello della lirica.
Da ragazzo, in collegio, ne ho scritte, di poesie. Ma erano pessime. Forse potrei farlo, mi dico. Ma siccome voglio vivere del mio, e i proventi sono quelli della scrittura, beh sono consapevole che con i versi si arriva a pochi lettori. Vede, sono nato povero, ora lo sono di meno, ma è successo soltanto perché ho scritto.
Ma è soddisfatto di ciò che finora ha prodotto? Un suo personaggio partendo per l’Africa dice: “O diventerò ricco o morirò”. E l’io narrante nelle righe successive lo paragona appunto a uno scrittore, per il quale la ricchezza viene dalla soddisfazione per ciò che mette nella pagina.
Beh, sono soddisfatto. Ma ritengo che i giochi non siano chiusi, di avere ancora qualcosa da dire. Eppure in Vite minuscole si percepisce che l’autore aspira a qualcosa di conchiuso. Forse la cosa migliore per me sarebbe stata morire alla fine del libro, in modo che quell’opera rimanesse, con la mia reputazione, un unicum, irripetibile.
Invece ne ha scritti altri, di libri. Biografie di personaggi famosi, come il postino Roulin immortalato da Van Gogh, Rimbaud, re e imperatori.
Libri che ebbero più successo, inizialmente, delle Vite minuscole. Meglio così, anche in questo caso. Perché mi sarei adagiato sulla fama del mio primo libro e avrei continuato in quel solco, diventando autore troppo caratterizzato.
Comunque personaggi del passato. Non le interessa la modernità?
Quando cominciai a scrivere la modernità aveva ancora un senso. Ormai siamo nella post-modernità, che anche in letteratura ha inglobato tutto. Ci troviamo nel magma dell’indifferenziato. Del resto continuo a preferire gli autori su cui mi sono formato, a partire da quelli che mi leggeva mia madre. Se dovessi sceglierne solo tre direi Baudelaire, Rimbaud e soprattutto Faulkner, che per me è un padre nonostante ne manchino echi nei miei lavori. Mi affascina perché ha vissuto in un ambiente di campagna, come me. Anche se adesso abito solo d’estate nella mia terra d’origine, mentre d’inverno mi trasferisco a Nantes.
E tra gli italiani, chi predilige?
Autori del primo Novecento: Pasolini, specie le poesie friulane degli esordi, tra le quali ricordo una che invoca Gesù, e lo chiama Jesus (Io sono un bel ragazzo, piango tutto il giorno, ti prego Gesù mio, non farmi morire. Gesù Gesù Gesù..). E poi Rigoni Stern, la Ortese, Antonio Moresco de La lucina. Tralascio di citare Dante, che meriterebbe un discorso lunghissimo, a parte.
Come costruisce i suoi libri?
Lavoro a lampi. Tutte le mie opere sono state scritte in poco tempo. Le vite sconosciute in quattro mesi, altri in pochissime settimane. Il resto del tempo non butto giù niente. È come se mi cullassi in un credo, in una fede incrollabile secondo la quale verranno i momenti di ispirazione e allora bisogna coglierli subito. Nel cassetto posseggo libri che potrebbero essere compiuti o no. Non sto appresso agli editori. Uno con il quale ero in grande sintonia, Verdier, mi spronava sempre a dargli i manoscritti. “Te lo dico io che sono conclusi”, mi rassicurava. Ora è morto, ed è finito questo sprone.
C’è stata la Brexit, l’elezione di Trump e ad aprile la Francia sceglierà il suo nuovo presidente. Teme l’ondata di populismo?
C’è da preoccuparsi. Ma voglio credere che i populismi abbiano meno possibilità di attecchire di quanto si creda. Non penso che la Francia ascolterà le sirene di chi vuole uscire dall’Europa. Eppure oltremanica hanno vinto loro. La cosa più grave, nel mio Paese, è la disgregazione della sinistra. Questo sì che può aprire un varco per l’affermazione dei populisti.
Ma uno scrittore può incidere sulla società?
Non lo so. I libri hanno cambiato la mia vita, ma non penso che io abbia influenzato le decisioni di nessuno.
Nella foto qui sopra, i vincitori del premio Nonino, oltre a Michon: l’archeologa arborea Isabella Dalla Ragione, il filosofo inglese John Gray e l’archeologo inglese Cyprian Broodbank con le sorelle Cristina e Antonella Nonino.