Every beat of my heart, la poesia
Trovare Dio nella metrica di un verso
Nella Parigi dei derelitti, François Villon non può riconoscere la luce del Cielo nel paesaggio gelato e oscurato dai corvi e dai corpi penzolanti degli impiccati. Ma riesce a riconoscerlo dentro di sé, nel suo canto, tanto da offrirgli una preghiera
Villon (Parigi 1431-1463), il sommo poeta della vita e del suo dolore. I derelitti, mossi dalle passioni elementari, e i potenti, la fame, la lussuria, la voglia di arraffare, gli uni e gli altri, i ricchi e i poveri, cercano per tutta la loro breve vita la pacificazione dell’amplesso e l’estasi calda dell’ubriachezza, uniche forme di effimera quiete terrena, subito cancellata dal tempo che rinasce a ogni istante sulle proprie ceneri. Villon è un uomo perennemente esule in una grande città, la Parigi del XV secolo, un uomo colto, che ha alle spalle non solo studi di alto livello, ma anche un talento straordinario e una gamma da poeta antico: perché alla disperazione si abbina, e vi convive, il riso, alla malinconia lo scherno, all’angoscia la gioia sfrenata del piacere dell’istante, al senso di prigionia (morale e sociale) quello di una libertà comunque insita nell’uomo, e che trova nella poesia il suo esito naturale.
E qui la radicale differenza tra il classico Villon e il poeta classico dell’antichità: Villon non crede in un futuro cieco e buio, dopo la morte. La prospettiva terrena si esaspera, il suo mondo vive attaccato alla terra, semimmerso nei suoi loschi sotterranei dove si congiura, nelle cantine dove ci si ubriaca bestialmente, nei bassifondi dove la vita è brutale, e il vino in eccesso, e il sesso mercanteggiato e gli accessi di collera paiono tremiti tellurici, trasmessi a chi troppo a contatto con la pancia buia della terra. D’altro canto, se alza lo sguardo, Villon vede svolazzare, cupi e sinistri, i corvi, a segnalare corpi che penzolano, anch’essi in alto, anneriti, rinsecchiti. In cielo vede i corpi degli impiccati che evidentemente costituiscono una caratteristica del paesaggio urbano di quella Parigi del XV secolo, città enorme, popolosa, immiserita dagli esiti di una lunghissima guerra che ha opposto la Corona di Francia a quella d’Inghilterra. In questa città fosca e traumatizzata dalla paura (gli impiccati sono i condannati, anche di reati di cui Villon si macchia, furto, risse, una volta omicidio, seppur con l’attenuante delle provocazioni), quei corpi penzolanti indicano il cupo destino incombente sull’uomo.
Tranne che in alcuni casi, in cui lo nomina risplendente nei suoi Cieli, Villon non trova Dio in quel cielo troppo gelato dalla neve e troppo oscurato dai corvi e dai corpi penzolanti, neri come more, degli impiccati. Lo trova dentro di sé, nel cuore del suo pensiero e della sua parola, lo scopre segreto metrico del suo verso. Da qui nasce la grande Ballata degli impiccati, vertice di poesia e compassione, dolore e pietà, pianto e preghiera.
Ballata degli impiccati
Fratelli umani che ci sopravvivete,
non guardateci col cuore congelato,
che se avrete pietà di noi perduti
Dio avrà per voi misericordia infinita.
Voi ci vedete a cinque, a sei appesi,
la nostra carne, che troppo abbiam nutrito
da tempo è divorata e imputridita,
e noi. Ossa, polvere incenerita.
Nessuno di voi rida del nostro male,
pregate solo Dio che ci perdoni.
Se vi chiamiamo fratelli non dovete
aver disprezzo perché fummo uccisi
dalla giustizia. In fondo voi sapete
che molti sono tra noi gli sregolati.
Intercedete per noi che siam passati,
davanti al figlio della Vergine Maria,
che la sua grazia non sia inaridita,
e che ci salvi dal fuoco infernale.
Noi siamo morti, non ci offendete,
pregate solo Dio che ci perdoni.
La pioggia ci ha sbiancati e lavati,
il sole prosciugati e anneriti.
Le piche e i corvi ci han scavato gli occhi,
e strappato la barba e i sopraccigli,
non ci è mai dato un attimo di quiete,
di qua, di là, come spira il vento
a suo piacere ci muove senza requie,
forati più di un ditale dagli uccelli.
Non siate della nostra compagnia,
pregate solo Dio che ci perdoni.
Gesù, che su tutti hai signoria,
fa’ che l’inferno non ci abbia in suo potere,
che non ci abbiamo niente a che spartire.
Uomini, qui non si scherza e non si gioca,
pregate solo Dio che ci perdoni.
François Villon
(Traduzione di Roberto Mussapi)