La voce del poeta: Maurizio Casagrande
Elogio dell’invettiva
La preghiera laica per il poeta che compone in dialetto padovano è l'unica maniera in cui può pregare chi si è lasciato alle spalle la fede in un corpo a corpo col dolore e con la morte. Una preghiera che a volte si avvicina alla bestemmia
Maurizio Casagrande, che alterna l’attività di poeta a quella di critico (da ricordare il volume In un gorgo di fedeltà edito dal Ponte del Sale nel 2006 che raccoglie le interviste a venti autori), ha al suo attivo le raccolte Sofegón carogna (2011) e Pa’ vèrghine ave (Per averne api) (78 pagine, 13 euro), pubblicata nel 2015 dalle Voci della Luna, con la quale ha vinto il Premio Internazionale di Poesia «Renato Giorgi». La produzione poetica di Casagrande, composta nel dialetto padovano in uso nell’area a sud di Padova, ha tratti fortemente legati alla sua terra, intrisi di una “carnalità”, di una pregnanza fisica molto pronunciate che vengono a tratti stemperate da istanze che hanno qualcosa di sacrale.
Il dialetto adoperato da Casagrande è quanto mai atipico, una sorta di “ibrido” dal colore «scuro come la terra dopo l’aratura, oppure cupo come l’acqua che ristagna in una gora», in cui è molto presente l’elemento di un’invettiva che raggiunge, spesso, il diapason della vera e propria imprecazione blasfema. Casagrande descrive con esiti quanto mai felici, attraverso «’sta freve de dire / ca m’inpisa ogni dì» («questa febbre di parole / che mi consuma ogni giorno»), un mondo popolato da un’umanità eterogenea, spesso alla deriva: ubriaconi e manovali, emarginati e falliti.
Il dialetto in cui lei scrive è il basso padovano.
Sì, è corretto, la base resta quella, tuttavia non è raro che me ne discosti per introdurre lemmi o costrutti derivati da altre varianti del veneto. Ne risulta pertanto una lingua ibrida, che sarebbe impossibile identificare sic et simpliciter col basso padovano (quale, poi?); è una scelta che risponde a esigenze espressive finalizzate a disporre, piuttosto che di una lingua d’uso, di una lingua d’arte, in tutto affine alla personalità e all’unicità di chi la usa. Mia e solo mia, insomma.
Sembra che una forma particolarissima di preghiera laica conviva con l’invettiva, con la bestemmia.
Credo che generalizzare sia sempre pericoloso. Voglio dire che l’ipotesi può dirsi fondata per uno dei miei libri che resta ancora inedito, mentre per le raccolte già pubblicate non mi pare sostenibile. Limitatamente a quest’ultimo, Dassea ‘nare (Lasciala andare), la connotazione di preghiera laica mi va benissimo: è questa, infatti, l’unica maniera in cui può pregare chi si sia lasciato alle spalle il sentiero della fede nel momento cruciale in cui ci si trova a misurarsi con le cose ultime, col dolore e con la morte di chi amiamo. Quindi sì, è anche questo. E acquista pure il valore, in determinati momenti del libro, di invettiva feroce scagliata contro dio, senza giungere tuttavia alla bestemmia vera e propria, pur arrivandoci molto vicino.
Si sente la lezione di un autore d’eccezione come Amedeo Giacomini.
Non posso negare che la lettura di Giacomini, forse il maggior poeta in dialetto del secondo Novecento, abbia esercitato su di me una suggestione potente, sia sul piano umano che su quello poetico, ma hanno contato ancora di più – mio malgrado e per quanto possa sembrare un’eresia – la mia formazione cattolica e la familiarità con alcuni libri biblici, quello di Giobbe in particolare (assieme all’Ecclesiaste, ai Salmi, a qualche libro profetico): ciò che indignava Giobbe non era tanto lo scacco della morte, bensì lo scandalo e la disumanità della sofferenza del giusto, del dolore gratuito che non trova giustificazione alcuna. E anch’io l’ho vissuto sulla mia pelle, nel vegliare mia madre condannata a patimenti che non auguro a nessuno. La violenza verbale di Dassea ‘nare ha avuto tale genesi e non poteva essere che così. Poi, è sicuro, devo moltissimo ad Amedeo dal quale ho cercato di assimilare l’imperativo a essere “veri” fino al sangue, costi quel che costi, «savînt che no jéssilu / al é piês che murî…» [«sapendo che non esserlo / è peggio di morire…», A. Giacomini, Libera nos a malo]. Trovo infine che lo stesso Giacomini fosse stato vittima di una lettura fuorviante della propria poetica, dal momento che esistono “bestemmie” che tali non risultano alla prova dei fatti e la lirica che citavo ne costituisce la prova più lampante.
Dalle sue raccolte traspare la necessità di una traduzione a fronte che non rispecchia fedelmente il testo originale ma che tende quasi a reinventarlo.
In realtà non si tratta di traduzioni: non le ho mai concepite in questi termini. Le considero piuttosto una riscrittura in un codice altro, una riscrittura che si propone per giunta l’obiettivo di allontanarsi quanto più possibile dalla fedeltà all’originale allo scopo di marcare la distanza incolmabile che sento fra lingua e dialetto. Può diventare un boomerang, me ne rendo conto, e spesso le mie ragioni vengono fraintese, tuttavia non sono disposto a rinunciarvi o a ricredermi.
Lei ha curato, con Matteo Vercesi, un’importante antologia intitolata Un altro veneto – Poeti in dialetto fra Novecento e Duemila (Edizioni Cofine, 2014). In cosa si distingue la poesia dialettale veneta dalle altre?
Ho contratto un debito di riconoscenza nei confronti di Matteo e lavorando a quattro mani con lui ho imparato ad apprezzarne le grandi doti umane e di critico. Ma rispondere a una domanda del genere non è facile. Rischierei di cadere in qualche banalità, tuttavia voglio provarci e arrivo a dire che, sul terreno del dialetto, il Veneto – in forza della sua tradizione millenaria (era la lingua della Serenissima, di Marin Sanudo e Goldoni, di Marco Polo e Paolo Sarpi!) – abbia esercitato lo stesso ruolo della Toscana su quello della lingua. Credo che poche regioni possano vantare una tradizione prestigiosa quanto la nostra e sto pensando non solo al capolavoro di Zanzotto (Filò), o al corpus di autori come Noventa, Giotti e Marin (entrambi assimilabili all’enclave veneta, quanto alle rispettive lingue), ma anche a poeti meno noti e altrettanto importanti: il padovano Luigi Bressan, i polesani Gino Piva ed Eugenio Ferdinando Palmieri, Bino Rebellato, che aveva saputo restituirci nella parlata di Contrada Vaccherie la vis comica del latino maccheronico di Folengo, i trevigiani Sandro Zanotto e Luciano Cecchinel, o il veneziano Carlo Della Corte. Cosa ci distingue? Forse l’attenzione all’ambiente, ai luoghi e alla loro storia, ai colori e alla resa dei medesimi in una chiave quasi pittorica. Può darsi che questo sia vero anche per i poeti del Piemonte o della Sardegna, ma li conosco troppo poco per affermarlo.
Cosa sta preparando attualmente?
Ho appena concluso, validamente assistito da Marco Munaro, la revisione di Dassea ‘nare, che comunque non uscirà a breve. Entro l’anno, una piccola plaquette d’arte, se sarà.
Può commentare la poesia inedita presentata?
Mi limiterei ad alcune precisazioni essenziali: il testo appartiene al volume inedito che menzionavo prima, interamente consacrato a mia madre, venuta a mancare nel marzo del 2012 per le conseguenze di una malattia che non perdona: l’epatite C. La Certosa è il monastero eretto nel secolo XVI in località Vigodarzere, già adibito a ospedale militare nel corso della Grande Guerra e convertito, durante la Seconda, in Santa Barbara dalla Wehrmacht. Tra il 1944 e il 1945 divenne luogo d’asilo per l’intera famiglia di mia madre, come per altri sfollati. Versa attualmente nel più totale degrado. Chiesanuova, invece, è un’area periferica di Padova, sede di alcune caserme oggi in disarmo, dove aveva trovato sistemazione l’intera sua famiglia dopo la guerra.
***
Sensa pèvare
Gnà ’a forsa de tajare l’anguria
on’ora pa’ mastegare i do risi
ca te gheo cusinà ca tii magni
vuintieri co ’i bisi o co ’i funghi
e ’opo basta parchè no ghe sta
ca on cicineto de roba ma ’lmanco
ca ’a piasa chea s-cianta ca va
pan biscoto co anguria xe on pranso
da re se ’opo no te ve spantassare
ma da tosa – mi ’o so – ca te jeri ’a pì sguelta
de tute a ciavaghe du graspi al fatore
co jeri sfoeài soa Certosa
vanti de ’nar Ciesanova
scondendoghe l’ùa drento ’l secio
a chel tignisso de on vecio
tornando dal posso co l’acoa drìo ’a càe
co te faseva l’amore me pare
fin ’l Prà de ’a Vae
Senza pepe
Nemmeno la forza di affettare un’anguria
un’ora per consumare il piatto di riso
che ti avevo preparato perché mostravi
di gradirlo con i piselli o i funghi
e solo quello perché non ci sta
che una briciola di cibo ma almeno
che ti giunga grato quel poco che tieni
pan biscotto ed anguria è un pranzo
regale se dopo non devi rigettare
eppure un tempo – io lo so – eri la più agile
di tutte a rubare due grappoli d’uva al fattore
quando eravate sfollati presso la Certosa
prima di stabilirvi a Chiesanuova
e li occultavi dentro al secchio
a quel vecchio taccagno
mentre tornavi dal pozzo con l’acqua lungo il sentiero
allorché mio padre ti faceva la corte
fino in Prato della Valle
Maurizio Casagrande