Ilaria Palomba
Ritorno di un celebre diario americano

L’America di Rosselli

“La mia America e la tua” di Aldo Rosselli racconta un continente lontano e vicino al tempo stesso: un catalogo di passioni, azzardi, arte e letteratura scritto dall'erede di una grande famiglia

La mia America e la tua di Aldo Rosselli, ripubblicato di recente da Antonio Veneziani per Fahrenheit edizioni, nella collana Narraitalia (Fahrenheit, 2016, pp. 158, euro 15), è un particolarissimo diario scritto con una lingua colta e densissima, a tratti lirica, colma di metafore e di quel senso del narrare in cui non è importante la trama ma l’approccio semantico. La parola crea i luoghi e i personaggi, descrive e imprime alla realtà il sigillo del simbolico e del metaforico. Un affastellarsi di ricordi che hanno tutta la tenerezza e l’amarezza di un altrove esperito nella carne, osservando ogni cosa, alla ricerca dei miti dell’epoca, da Andy Warhol a Edie Sedwick, da Norman Mailer a Moravia, passando per la Beat Generation e tutto il panorama americano degli anni Sessanta, nel pieno del suo delirante e trasgressivo ribellismo.

All’inizio è descritto il controverso rapporto con una nonna affascinante e dispotica, tutto vissuto nella casa di Larchmont che appare «come una specie di torta di cioccolata striata di panna e qua e là delle ciliegine al posto giusto.»

aldo-rosselliDell’infanzia, oltre al ricordo di nonna Amelia, spicca il difficile confronto con i compagni di scuola, americani da generazioni, che lo individuano come «estraneo, inferiore, possibile e forse desiderabile oggetto di vessazioni, scherzi crudeli, fantasiose brutalità.»

Vivere a New York ha il sapore tribale di un luogo metafisico, descritto come verticale e trasgressivo «verso l’alto delle nuvole che senza preavviso coprivano le cime dei grattacieli o di qualsiasi massa architettonica che si era spinta troppo aggressivamente verso il cielo.» Questo sogno americano gli appare piuttosto come un incubo, forse per la sensazione di estrema solitudine in cui persino le star dell’arte e della letteratura si ritrovano, una sorta di teatro di specchi popolato da un vuoto desiderio di esserci e insieme una forma di melanconico abbandono al presente senza storia. La caccia alle star comincia con Norman Mailer «gonfio di successo e della solita megalomania pericolosa del tutto fuori controllo.»

Sulla bellezza e il vuoto, sull’istrionica bipolarità dei divi, il momento più alto è la descrizione della divinità quanto disperazione della star di Andy Warhol: Edie Sedwick, di cui l’autore stesso pare essere innamorato. Qualunque relazione con lei significava accodarsi alla folla pazza di ammiratori disposti a tutto per uno sguardo, una parola. Ma di quanta disperata estraneità, e tutto sommato ingenuità, era vittima l’amata? «Per Edie i conti non erano mai tornati, né mai la brillantezza delle sue conquiste poté dissociarsi dal filo di amaro in bocca, la sensazione che la matassa funestamente si srotolasse fino ai fili iniziali, fino a un’infanzia indistinta, una madre che era stata sempre distratta, indifferente, chissà. Lei si buttava in avanti, oltre ogni possibilità di discrimine, con elegante volubilità, scegliendo la china di maggior rischio», fino all’esito tragico della sua terribile esistenza.

Anche i Beats erano segnati dalla drammaticità di un essere contro a tutti i costi, ma poi di una dolcezza e di una poesia altrettanto drammatiche in quanto finivano per essere risucchiati nell’infernale macchinario stesso che si andava contestando, come non ci fosse che un unico tempo, il qui ed ora, in cui tutto veniva riassorbito in una sferzante e narcisistica mania di presenza e, per opposizione, assenza.

aldo-rosselliMomento importante e magico è l’incontro con Moravia, di cui Rosselli (nella foto) delinea una doppia esistenza, quella del Moravia immaginato e quella del Moravia reale, che in fin dei conti finiscono per convergere. «Il Moravia vero, cronachistico, faceva il possibile per corrispondere alla sua apparenza mitologica. Era davvero semisdraiato, con la gamba sofferente apparentemente disancorata dal resto del corpo, fianchi stretti da adolescente, torace elegante, atletico. Un corpo, insomma, che inconfondibilmente ricordava l’asciuttezza sognante e inane del Michele che buffonescamente spara a vuoto contro l’esecrato amante della madre.» Con questo ritratto si chiude la penultima parte del libro, per lasciarci accedere alla mostruosa bellezza di una New York che è tutto e il contrario di tutto, dove agli sfavillanti narcisismi autoriali degli anni Sessanta si contrappone l’enclave dell’Upper West Side in cui l’autore si crea uno spazio abitativo del tutto distante dal presente, in un tempo fuori dal tempo, e dove il riferimento artistico è ad Andrew Wyeth, «al suo trasognato realismo lirico in cui un’ossessiva solitudine permea di sé scarni, petrosi paesaggi, una disperata creatura femminile che si aggrappa al terreno arido, sotto un cielo minaccioso che sembra spezzare il lieve accenno d’idillio che aleggia su forme e colori sfumati.»

Ci si sveglia da questo sogno/incubo americano con la sensazione di essere stati, anche noi lettori, un po’ divorati dalla bellezza e dalla mostruosità, dalla passione e dalla freddezza di un tempo e un luogo in cui la velocità creativa e distruttiva fagocita ogni residuo di razionalità. E si resta attoniti, incantati dalla meraviglia della letteratura.

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