Cartolina dall'America
Pirandello secondo Stoppard
Gran successo a Chicago per una edizione di "Enrico IV" di Pirandello riscritta da Stoppard. Un lavoro quasi psicoanalitico sull'impossibilità di essere normali messo in scena da Nick Sandys con Mark Montgomery
Tra gli oltre 200 teatri di Chicago, quello della compagnia Remy Bumppo, fondata nel 1996, ha una programmazione sofisticata che sotto la direzione di Nick Sandys mette in scena autori del calibro di George Bernard Shaw, Eugene O’Neill, Samuel Beckett, Harold Pinter, David Mamet, Tom Stoppard ed altri. E in una realtà come quella di Chicago, seconda solo a New York per competizione e qualità degli spettacoli, non è facile sopravvivere.
Piccolo teatro di soli 183 posti, tra i tanti di una zona centrale della città di recente rigenerata e popolata da molti giovani, Remy Bumppo ha prodotto da pochi giorni e fino al 13 novembre una messinscena dell’Enrico IV di Luigi Pirandello tradotta e riadattata da Tom Stoppard. Il successo dell’abbinamento poggia sulla riuscita dell’alchimia tra i due autori. E principalmente sulla capacità del regista, che è un esperto di Tom Stoppard, di amalgamare in questa combine i temi centrali dei lavori dei due commediografi. Per quanto attiene a Pirandello, guardando questa pièce, non si può fare a meno di pensare ai Sei personaggi in cerca di autore e per Stoppard a Rosenkranz e Guilderstern sono morti. Fondamentale è infine la capacità degli attori di rendere questa performance, che non ha un filo conduttore, una storia vera e propria, avvincente per un pubblico che poco o niente sa di Pirandello.
Quando Nick Sandys viene a sapere che sono italiana, che Pirandello è stato tra gli autori che ho frequentemente insegnato, mi chiede subito di commentare con lui la pièce alla fine dello spettacolo. A dispetto del fatto che specifico di essermene occupata più da un punto di vista letterario e filosofico che teatrale. Mi sento investita di una responsabilità che mi eccita, ma allo stesso tempo mi spaventa.
Il teatro è davvero piccolo con una scala minuscola che porta ai posti a sedere situati intorno al palcoscenico vicinissimo agli spettatori. Questa è la prima. Arriviamo poco prima dell’inizio e all’orario stabilito si comincia senza alcun ritardo. La scena è scarna, essenziale. Lo slogan del teatro “think theatre” sembra particolarmente appropriato alla performance della serata.
La storia prende il nome dall’imperatore del Sacro Romano Impero Enrico IV che, scomunicato da Gregorio VII, nel 1077si recò a Canossa per riconciliarsi con il papa ospitato dalla contessa Matilde di Toscana. Ma la performance della serata non è la storia di questo incontro. Il tema di questa pièce è bensì quello di un nobile contemporaneo di Pirandello che a causa di una caduta da cavallo crede di essere quell’imperatore e per venti anni obbliga tutti coloro che lo circondano e lo assistono a rappresentare la farsa. La performance si apre con un giovane assunto dalla famiglia che deve essere parte della messa in scena. Eccetto che quando si presenta e gli viene spiegato cosa deve fare si rende conto che ha sbagliato regnante, credendo di dover fare parte della corte dei re Enrico IV di Francia. A questo punto l’ansia in palcoscenico cresce non solo per il fatto che adesso c’è un attore che non sa quello che deve fare, ma soprattutto perché a breve Enrico IV riceverà la visita di una nipote, Matilde, (la donna che, e questo non è chiaro volutamente, potrebbe averlo lasciato in passato), del suo fidanzato, della figlia di Matilde, Frida, assieme al boyfriend, tutti accompagnati da un rinomato psicanalista. Il ruolo di quest’ultimo è quello di far affrontare al nobile la sua fantasia nel tentativo di riportarlo ad una condizione mentale di normalità.
Ed è proprio questa idea di normalità, assieme ad altri temi prettamente pirandelliani e comuni anche a Stoppard, come quello dell’identità, dell’autenticità, del significato della realtà che, sotto l’esperta direzione di Nick Sandys, si amalgamano, senza suture visibili, nell’intera performance. In aggiunta al fatto che l’idea del teatro nel teatro, sempre molto difficile da rendere sul palcoscenico senza diventare noiosa, risulta invece particolarmente godibile in questa versione.
L’intrecciarsi inoltre dei tempi medievali con quelli contemporanei, i dialoghi tra gli attori che passano da un’epoca all’altra senza creare confusione, si muovono in perfetta sintonia con il sentire di Pirandello e di Stoppard. Infatti si parla in continuazione di verità, di normalità come elementi soggettivi di passaggio, mai come punti di arrivo. Una condizione che diventa esistenziale mai definitiva, mai oggettiva. Qualcosa che ha sempre messo in difficoltà i miei studenti i quali, cercando di entrare nella testa di Pirandello, non si trovavano a proprio agio con l’autore siciliano, proprio per l’incapacità di ricevere una risposta precisa, buona una volta per tutte.
Gli attori sono tutti convincenti e molto bravi con una particolare menzione per Patrice Eglestone (Matilde). Ma su tutti torreggia Mark Montgomery che come Enrico IV letteralmente svetta (è infatti molto alto e ha una presenza fisica imponente, oltreché una voce stentorea) portando la pièce ad un livello superiore. Una performance psicanalitica, molto fisica quasi catartica, quella di Montgomery che sul palcoscenico suda e si divincola nel tentativo di sfuggire una realtà che gli è difficile accettare coinvolgendo profondamente anche noi spettatori che gli siamo così vicini. Quando alla fine dello spettacolo, durante un piccolo buffet offerto dal teatro, gli manifesto la mia approvazione, con grande modestia, il gigante, ancora tutto sudato, si inchina e sentitamente si mette una mano sul cuore in segno di ringraziamento dopodiché alza la bottiglia di birra per un brindisi. Anche se da quello che mi dicono è uno degli attori più conosciuti e appezzati nell’area di Chicago e dunque è abituato ai complimenti.
La stessa cosa vale per Sandys che mi cerca subito alla fine dello spettacolo e mi chiede con grande umiltà cosa ne penso. Al giudizio sugli attori aggiungo che particolarmente degni di nota sono la vena di umorismo come percezione del reale, la profonda commozione, l’intimità con il pubblico che si viene a creare e la capacità di cogliere lo spirito comune ad ambedue gli autori, resi tutti in modo magistrale.