Una mostra inconsueta a Roma
Arti a confronto
Allo stadio di Domiziano, Raffaella Frascarelli ha messo in relazione le opere di alcuni artisti contemporanei con le meraviglie stanche della Roma antica. Un modo per cogliere il senso del tempo
Come è facile innamorarsi di Roma antica. Come è difficile amarla davvero. Senza impigrire nell’abitudine. Senza lasciarsi trascinare all’indietro dal fascino del suo passato, dimenticando di interrogarlo, perché nessun amore può essere pietrificato nella nostalgia. Neanche quello per le rovine che altrimenti si trasformano in macerie che non raccontano più sconfitte e trionfi. E nascondono la storia vera di anima e carne, soprusi ed errori che ha partorito la magnificenza di quelle mura, di quei monumenti in gran parte crollati. Un amore può, deve essere fazioso, mai essere cieco. E il tempo per restituire a quelle reliquie, il senso o l’illusione d’eternità, quella grande bellezza che a Roma antica riconosciamo, è un percorso da attraversare in tutte le direzioni possibili, un passo all’indietro per misurare quello che abbiamo perduto o ci è stato espropriato e uno in avanti per misurare chi siamo e dove stiamo andando.
È il prologo di intenzioni che da corpo alla mostra «Par tibi Roma nihil» (Roma come te non c’è nessuna, a rubare la traduzione da una canzonetta) in scena per tutta l’estate e prorogata sino a fine ottobre in uno spicchio del Palatino, lo stadio di Domiziano, ancora in gran parte da restaurare e aperto al pubblico per l’occasione. Un incontro tra archeologia e creatività contemporanea nato dalla incontenibile passione per entrambe che segna e ha indirizzato la doppia vita della curatrice, Raffaella Frascarelli, archeologa e specialista di civiltà mesopotamiche e culture orientali ma anche collezionista dell’arte italiana e straniera di oggi. Certo è un copione da illuminismo libertino questo stanare e costringere a convivere faccia a faccia due amori così apparentemente inconciliabili, così poco avvezzi a parlarsi.
Non a caso l’impresa riesce solo in parte, perché i due interlocutori tendono a ignorarsi, o a darsi sulla voce: il fascino delle rovine che tende a intimidire, imporre il silenzio, il linguaggio di molti autori di oggi che corteggia invece il rumore e il fior di pelle. Brava comunque Raffaella Frascarelli a distillare da questa anomala miscela palpiti di verità, emozione, domande, punti di vista inediti. Come gli squarci che assecondando la sua vocazione di archeologa apre ad una rivisitazione meno scontata del mondo antico. Per coglierli il visitatore deve sobbarcarsi uno sforzo che gli è poco abituale: quello di leggere con attenzione le didascalie che accompagnano le opere messe in vista, e dopo aver dato conto del titolo dell’opera e dei resti in cui è incastonata, ci guidano verso altri percorsi, suggerendo persino una bibliografia con cui documentarsi più a fondo.
Restituiscono alle vestigia del mondo romano e pagano un senso della sacralità ben diverso da quello che il trionfo del cristianesimo gli ha sovrapposto: al posto del dio unico e delle sue regole una polarità di figure luminose che incanalano e liberano gli echi delle nostre pulsioni profonde. Ci raccontano l’impero e la sua decadenza come un alternarsi continuo di luci ed ombre, debolezza e potenza, schiavitù e tolleranza, senso del diritto e sopraffazioni. Reinterpretano i suoi contatti con l’Oriente, dentro e oltre le sponde del suo dominio, persino quelli con un altro impero coevo come quello cinese. Già la Cina e Roma due universi paralleli che non hanno mai avuto occasione di incontrarsi davvero, ma si conoscevano e rispettavano a distanza, attraverso il traffico di merci lungo le vie della Seta, sbarrate dai Parti ma comunque porose. E ancora gli echi perduti delle cultura mesopotamiche, la ricchezza dei suoi miti e dei suoi simboli sovrastata da una rilettura della storia modellata dai vincitori. E così via in un processo di disvelamento che nasce dal bisogno della curatrice di misurarsi con le distorsioni del presente , prendere posizione, dire la sua sulla società globalizzata di oggi, la finanza e il liberismo che hanno preso il posto della politica e della libertà di pensiero della filosofia, relegando a culto di nicchia l’equilibrio e l’armonia della saggezza orientale.
Stimoli e spunti di riflessioni che a volte raggiungono il segno, a volte restano sotto traccia e diventano impalpabili. Un po’ quando la chiave d’accesso si trasforma in confessione personale, autobiografia, difficile da condividere. Ma soprattutto perché le opere dell’arte di oggi di rado si piegano alla profondità di questi attraversamenti trasversali, e la scelta è limitata al serbatoio di lavori di una raccolta, quella della Fondazione Nomas, che Raffaella Frascarelli ha costruito poco a poco insieme al marito Stefano Sciarretta. Ricca di oltre un migliaio di creazioni d’artista ma non abbastanza per rappresentare l’intero universo espressivo dell’ultimo Novecento e del contemporaneo.
C’è un rapporto sbilanciato di scala. Poche le opere che riescono a sfondare l’imponenza delle quinte monumentali del Palatino. Come la statua di Batman modellata da Adrian Tranquilli, marchio di fabbrica in cui l’autore si è un po’ troppo adagiato, che svetta inquietante nella penombra di una delle arcate del palazzo imperiale: un dio dei fumetti che urla la rabbia della sconfitta e ci rimanda gli echi di un altro Olimpo di numi spodestati, il basso e l’alto, il buio e la luce, della cui fecondità siamo stati spossessati. Come la colonna di mani protese, purtroppo smontata prima della proroga della mostra che il kosovaro Sislej Khafa aveva eretto nel perimetro della Meta Sudante come grido d’aiuto e dolore del popolo dei migranti.
Ma a volte neanche ingrandire le proporzioni è artificio sufficiente. Ci prova invano la lunga fila di vessilli a fasce multicolori che un archistar conclamato come Daniel Buren ha issato sulla sommità delle arcate severiane. Le noti da lontano ma l’impressione è di una scenografia chiassosa e moduli commerciali da gara di formula Uno piuttosto che un evocazione dei ludi che si celebravano proprio là sotto sulla pista del circo Massimo. Ci provano invano le istallazioni di lettere cubitali d’acciaio di Marko Lulic (nella foto accanto al titolo) e Piero Golia (nella foto sopra) adagiate sul prato, la prima all’ingresso la seconda dell’arena dello stadio. Un vezzo di molta arte contemporanea questo tentare di sfruttare la forza delle parole, racchiusa in algide forme concettuali nella convinzione che l’impatto, il mistero di un’opera possa essere rimpiazzato dal percorso che l’ha generata. Oppure dall’invadere altri campi , senza preoccuparsi se appartengono ad altre storie perché la Storia in sé è un codice rimosso, come fa Valerio Rocco Orlando suggellando con una scritta «personale e politico» partorita dal femminismo sessantottino, che dimentica di citare, un video di studenti che intervistati riversano valanghe di critiche a scuola e insegnanti, compito di denuncia che il giornalismo d’inchiesta ha assolto in modo sicuramente migliore.
Inutile chiedere conto di questa cadute a Raffaella Frascarelli, le risposte sarebbero comunque offuscate dal ruolo materno di chioccia che ha assolto come collezionista e committente. Più utile affidare gradimento e giudizi all’emozione. Alle schegge che si imprimono nella memoria. Come il video dei Masbedo: una mano che accarezza una testa mozzata di statua sul fondo del mare e poi si lascia coprire e ferire dai tentacoli di una medusa. Come l’imbuto squadrato di un mattone forato che l’africano Kader Attia sovrappone come una maschera Dogon su una statua di Venere ad evocare la convivenza impossibile tra il razionalismo tecnologico e l’animismo delle culture tribali del vecchio continente.
Archeologia e arte, spesso purtroppo votata alla superficie e alle imposizioni del mercato. Amori impossibili riscattati nel bilancio complessivo da una mostra che nasce comunque dall’intensità e dalla verità di una passione fin troppo sentita. E comunque vince l’indifferenza, sfugge alla tentazioni da rivista patinata.