Uno spettacolo su amore e poesia
Normalmente Alda Merini
Negli spazi terribilmente evocativi del Santa Maria della Pietà, Enrica Rosso rende omaggio ai versi di Alda Merini, alla sua visionaria capacità di dar nomi alle ombre
Andate a vedere Vuoto d’amore, un omaggio a Alda Merini condotto da Enrica Rosso, fino a domenica sera, presso il Museo Laboratorio della Mente, al Santa Maria della Pietà, a Roma. Andateci anche se non vi piace la poesia. Andateci anche se non conoscete Alda Merini. Anzi, andateci soprattutto se non conoscete la Merini né amate la poesia: ne vale la pena perché sarà come immergersi in un lago limpido di emozioni accompagnati da parole ignote. Un’esperienza forte, coinvolgente e al tempo stesso rassicurante: dette nel modo giusto, anche le cose più audaci e assurde finiscono per essere quel che sono, normali. Anzi: inevitabili.
Ecco, la poesia di Alda Merini, io credo, ha il pregio di sembrare inevitabile. L’autrice non poteva fare a meno di raccontare così la sua vita; noi lettori non potevamo fare a meno di scoprirla così, attraverso di lei, la nostra vita. Tutto è, semplicemente: e (quindi) a tutto occorre dare un nome, specie alle ombre. Di queste ombre Alda Merini ha confezionato un catalogo, una sorta di enciclopedia in chiave poetica. Lieve.
Vuoto d’amore, dunque, più che uno spettacolo tradizionale è un’iniziazione in tre fasi distinte eppure conseguenti. Prima, lo spettatore viene accompagnato in alcuni angoli del Parco dell’ex ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà: con sé ognuno ha una sorta di audioguida da dove ascolta in luoghi prestabiliti, a ogni stazione come una normale via crucis, alcuni versi della poetessa milanese detti in un magnetofono da Enrica Rosso. Poi, tutti vengono introdotti nel Museo Laboratorio della Mente e ciascuno, sempre con la sua audioguida, può accoppiare ciò che vede a nuovi versi. Con le coloriture poetiche di Alda Merini nelle orecchie, gli occhi spaziano in una memoria spaventosa, che la società aveva infilato nei recessi di se stessa: sono le testimonianze di un universo concentrazionario dove un tempo – fino alla rivoluzione di Franco Basaglia – le diversità venivano recluse, perseguitate, elettrificate, legate. Per dire, da ragazzo andavo in una scuola, oggi si chiama Pasteur, contigua al Santa Maria della Pietà. Quei reclusi erano i miei vicini d’infanzia. L’altra sera mi sono tornate alle orecchie nitidamente le urla che ascoltavo – da ragazzo – provenire dal manicomio ancora in funzione in quanto tale: si sono mescolate a quei brandelli di letti d’ospedale, o lacci, o cavi elettrici risistemati da Studio Azzurro e alle parole quiete ma terribili di Alda Merini sussurrate da Enrica Rosso. Pur essendoci cresciuto accanto, non ero mai entrato nell’ex ospedale psichiatrico: una memoria rimossa eppure drammaticamente sempre presente. Improvvisamente ritrovata. Accettata, forse.
Infine, il terzo atto della serata è uno spettacolo vero e proprio, un monologo che Enrica Rosso svolge davanti agli spettatori nel piccolo auditorium del Museo, cucendo mirabilmente alcuni versi d’amore e di passione infuocata di Alda Merini traendone una storia interiore calda e coinvolgente. Ciò che colpisce, anche qui, è il tono lieve, mai gridato, mai sopra le righe che traspare dalla recitazione dell’attrice e regista di questo progetto. E colpisce perché, viceversa, un certo establishment letterario recente ha trasmesso un personaggio Alda Merini ben altrimenti eccessivo, quasi a farne un’icona della diversità mentre è proprio della sua normalità che Enrica Rosso (e io credo abbia ragione) si occupa. Anzi: tale sua normalità l’attrice/regista ci trasmette.
Questo è il tratto più significativo di Vuoto d’amore: la vita è una navigazione difficile e la normalità non si misura in toni alti o bassi, in diversità esibite o nascoste. La normalità è un catalogo di ombre al quale ognuno, ogni giorno, faticosamente è chiamato a dare un nome. Alda Merini, nei suoi soffocati furori, ci riusciva: tutto qui.