Danilo Maestosi
Al museo delle Terme di Roma

Arp, l’equilibrista

Omaggio a Hans Arp, artista capace di oscillare senza cadute tra Eraclito e Parmenide, di cucire con uno stesso filo il furore innovatore dell’avanguardia e l’estasi della forma pura

«Un’opera che non ha radici nel mito, nella poesia, che non partecipa alla profondità dell’universo non è che un fantasma». È uno dei pensieri di Hans Arp stampato sulla parete a chiudere il percorso della mostra, in scena fino al 15 gennaio, che a cinquanta anni dalla morte il museo delle Terme dedica a questo geniale, schivo e mercuriale artista franco-tedesco (1886-1966). Arp fu tra i padri fondatori del movimento Dada e compagno di viaggio dei surrealisti per poi approdare come scultore ad una galassia di forme sintetiche e levigate che inseguiva l’inesauribile manifestarsi e cristallizzarsi in segni e immagini della natura.

Proprio sulla sue scultura la rassegna curata da Alberto Fiz accende i riflettori, assecondando la vocazione del museo ad aprirsi ai grandi maestri moderni dell’arte plastica e far dialogare i loro lavori con i cimeli dell’arte classica, come è avvenuto con Rodin e Moore. E sfruttando i prestiti, oltre 80 statue, provenienti dalla Fondazione Arp. Una scelta di campo che concede purtroppo solo due siparietti, in testa e in coda, agli anni ribelli dell’esordio e ai rapporti di intensa collaborazione con la moglie Sophie Taeuber, altra artista di rango che fu per lui molto più di una spalla e di una musa. Ma non impedisce a questa rivisitazione di tracciare comunque un avvincente ritratto a tutto tondo di un artista dotato di una straordinaria dote d’equilibrista. La capacità forse unica nel panorama del Novecento, di oscillare senza cadute tra Eraclito e Parmenide, di cucire con uno stesso filo il furore innovatore dell’avanguardia e l’estasi della forma pura che è conquista solo di chi sa cogliere con uno stesso sguardo il dentro e il fuori, restituire profondità di vibrazioni alla superficie.

Già, la molteplicità di direzioni dello sguardo. È la chiave di lettura che ci suggerisce, meglio dire ci impone, l’allestimento firmato da Francesco Venezia che fa tesoro di due evidenti limitazioni e ne compensa l’impatto. La prima è il taglio imposto al copione, che si concentra sull’attività scultorea di Hans Arp, una svolta che risale gli anni ’30 ma segna poi in maniera decisiva la sua carriera. Liquidando con poche citazioni la fase precedente della sua attività : i proclami di rottura, gli sberleffi Dada, l’uso dei collage e le invenzioni grafiche che lo avvicinano al suprematismo russo, la pratica delle carte ritagliate che si trascina appresso echi tangibili della sua amicizia con Matisse. Peccato non potere ammirarne di più. Le opere sono comunque scelte con grande attenzione, perché in ognuna c’è la premessa del salto verso la terza dimensione e del processo di raffinata semplificazione grafica con cui Hans Arp distilla forme primarie dal campionario del mondo esterno, dal caleidoscopio dell’inorganico. Dietro ogni opera c’è un occhio allenato a cogliere solo l’essenziale, il mistero dell’impadronirsi dello spazio e generare altri volumi, altri spazi, altri vuoti. Uno sguardo che va oltre insomma. E lo ha sempre fatto, come ci testimoniano due ritratti fotografici Anni Venti in bianco e nero. Il primo, una sorta di manifesto dello spirito Dada, gli incassa nell’occhio, come un tratto inconfondibile della sua ottica d’autore, un monocolo dal diaframma dilatato che evoca una sorta di magico telescopio. Il secondo scattato da El Lissinsky, grande cantore della rivoluzione russa, ne sdoppia e ne sfoca le sembianze, ad esaltare in modo ironico la sua capacità di passare in un colpo d’occhio dal vicino al lontano, di intravedere in questa nebbia di perenne movimento mentale nuove forme parallele.

hans-arp2Uno sguardo-finestra aperto all’imprevisto, all’altrove quello di Hans Arp. Artificio che la scenografia di questa esposizione sfrutta per bilanciare il secondo limite, quello di uno spazio abbastanza angusto – tutte le opere sono addensate in una sola aula del complesso archeologico delle Terme – e fortemente connotato. Poche le sculture di grandi dimensioni, e quasi tutte sistemate all’aperto. La maggioranza delle altre, di scala più ridotta, è esposta su scaffali aperti che non filtrano quel che c’è alle spalle e obbligano il visitatore a girare attorno ad ogni bacheca per completare la visione delle statue. Un andirivieni fra seconda e terza dimensione che ci guida nel percorso creativo dell’autore dal segno di partenza al modellato, verso la ricchezza di imprevedibili varianti e contrappunti che moltiplicano armonia e senso di ognuna di quelle morbide e sinuose curve che ammiriamo in vetrina. E qua e là la parentesi di inattesi squarci che inquadrano i mosaici, le statue, i marmi antichi, il campionario di colonne e fregi architettonici del museo romano come miraggi di un orizzonte remoto e incombente di confronto con il passato nel quale lo stesso Arp si è immerso ,traendone ispirazione.

Poesia, mistero, profondità, senso della storia. L’arte che ci rinuncia produce fantasmi, sentenzia Hans Arp, seminando il virus di un senso di fastidio e di spaesamento, che si ridesta e ci accompagna in un altro dei tanti vernissage proposti in simultanea da questo autunno romano sovraccarico di appuntamenti in concorrenza e mal coordinati. È l’inaugurazione dei lavori di quattro autori italiani che si contendono il premio, che da 15 anni il Maxxi, il museo del contemporaneo di via Guido Reni, riserva ai più promettenti talenti dell’ultima generazione. A novembre una giuria di esperti, che ha selezionato questi finalisti, dovrà scegliere il migliore per poi includerne l’opera nelle sue collezioni. Nulla da obiettare sulle modalità del concorso. Dal setaccio delle precedenti edizioni sono emersi nomi di tutto riguardo come Vanessa Beecroft, Bruna Esposito, Mario Airò, Stefano Arienti, Vedovamazzei, Adrian Paci, Giorgio Calò.

Quale nome aggiungere quest’anno? È a questo punto che mi riaffiora dentro il severo giudizio di Hans Arp. Certo un maestro d’altra epoca, altra scuola, altra filosofia di vita e di lavoro con cui la deriva imperante del pensiero debole ha tagliato i ponti. Ma non sarei così sicuro che profondità, poesia, senso del mito e del mistero siano davvero criteri di valutazione da mettere al bando, da condannare al macero, reliquie non aggiornabili. Difficile allora, almeno per me, scacciare la sensazione che la passerella di istallazioni che mi trovo di fronte sia una giostra, una sfilata di fantasmi. Che sia un fantasma lo spettacolo di pure intenzioni, cui ha fatto ricorso Ludovica Carbotta, inseguendo un’idea niente male, quella di un museo a misura di ogni persona verso cui spingere il proprio pubblico, ma affidandola ad una gelida impalcatura di tralicci, che simulano l’architettura della antiche caserme inglobate e stravolte dal Maxxi di Zaha Hadid, e accolgono qualche cimelio. Che in un algido mosaico di inconsistenza autoreferenziale e già visto si perda il proposito di Riccardo Arena di dar conto di un suo viaggio in Russia, innalzando su mucchi di carbone una colonna che evoca il monumento alla rivoluzione di San Pietroburgo e cospargendo le pareti di cupi e indecifrabili disegni.

Che sia solo un fantasma, un superfluo ectoplasma ridestato dal clima architettese che spira al Maxxi, il brutto involucro di legno coperto di paillettes, che il gruppo di cineasti Zapruder erige come vago richiamo al sacrario di un tempio antico, per offrire a chi varca la soglia la sorpresa di un film , invece a suo modo gradevole, che reinventa le imprese di Ercole.

Sembra sfuggire al copione da seduta spiritica solo la quarta istallazione firmata da Adele Husni Bey, data non a caso come favorita. Un palcoscenico rotante su cui in 4 diversi siparietti si esibiscono troupe di attori bianchi e di colore, simulando format televisivi, dal telegiornale al concertino, che una camera montata su un binario circolare riprende in diretta. La performance è colorita e divertente. L’ambizione di denunciare come nella vita di oggi realtà e finzione si sovrappongano è però affidata a un sceneggiatura scontata e banale e a una vitalità ammiccante e posticcia. La vita vera, quando l’arte con meno supponenza l’invita sul palco, produce emozioni e corti circuiti molto più intensi. Come la scenetta che il copione del caso ci offre in uno dei padiglioni del festival Outdor, che per un mese sgrana i suoi richiami da nottambuli proprio di fronte al Maxxi. Nello stanzone di una ex caserma in disarmo un pittore di murales americano, Craig Costello, si è esibito in un suo cavallo di battaglia: colature di colori argentati su fondi scuri. Nella penombra quelle strisce sembrano zampilli di una cascata. Una tentazione irresistibile per un bambinetto che varca la soglia coni genitori. Incantato si libera dalle mani della mamma e corre a mani tese verso quel miraggio in cui vorrebbe tuffarsi. Un capolavoro la gamma di emozioni sulla sua faccia.

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