Alberto Sagna
Un racconto inedito

La scuola perfetta

«Tu sei morto. A ricreazione», lo disse sottovoce. Il sibilo venne udito dalla classe. Non lo osteggiarono, non lo fermarono

Le radici dell’educazione sono amare, ma il frutto è dolce.
Aristotele

Seduto sul banco, terza fila vicino alla parete, con i polsi poggiati su quel legno scuro, un libro di matematica dalle pagine ingiallite, una penna bic, il diario ancora nello zaino, Ibrahim guardava la lavagna. La gola secca, il collo leggermente sporto in avanti, la punta del piede sinistro che faceva pressione sul pavimento e la mano destra aggrappata sul lato del banco. Numeri, con il segno di un’addizione, di una radice quadra, un’eguale, e poi ancora un numero.

Con voce acuta, quanto lo stridio del gesso, l’insegnante dettava un’equazione algebrica.

«Tutto ciò che non si condensa in un’equazione non è scienza, così diceva Einstein.»

Mentre scriveva, la professoressa Calcaterra spiegava, velocemente, voltando le spalle alla classe

Poi, con due occhi scuri, scrutava gli alunni tra i banchi, i loro quaderni, la postura, toccandosi con mano la chioma arruffata di capelli grigi, con le dita imbiancate dalla polvere bianca. E all’improvviso si fermava, guardando il registro di classe, per chiamare alla lavagna. Qualcuno a caso. Ma non era mai a caso. Era quasi sempre Ibrahim. Ridevano. Tutti. All’inizio e anche dopo.

Ibrahim senza occhiali ci vedeva poco. Una piccola cicatrice a forma di elle compariva sul sopracciglio dell’occhio sinistro. Aveva un corpo longilineo, con i piedi grossi, larghi e tozzi, avvolti solo da due sandali.

lavagna-di-scuola3Era la prima scuola italiana per Ibrahim, pagata con il lavoro di un anno nel campo di pomodori, spaccandosi la schiena dalle cinque del mattino, per quattro euro l’ora, nel pieno sud della verde campagna siciliana, sotto il comando di un tunisino. Era lui che lo picchiava se non saliva in fretta sul furgone.

Ibrahim impugnava la sua penna tenendola tra due falangi della mano, leggermente arcuata.

«Guarda come scrive bene lo Zulù», e tutti giù nuovamente a ridere.

Ibrahim aveva il banco tutto per sé. L’unico ad essere da solo.

Accanto, sulla fila centrale, c’era un ragazzo moro, capelli a caschetto. Tutte le ragazze erano per lui. Anche per schernire il ragazzo dalla pelle nera.

Quella volta, però, Ibrahim rispose.

«Io non sono Zulù. Vengo dal Mali. Loro sono “gente del cielo” e parlano inglese. Io francese. Tu parli inglese?»

Il tono era rapido, le orbite degli occhi erano diventate sempre più bianche. Il respiro era salito, dalla gola. Quando iniziava a parlare tutti si giravano dall’altra parte. Tutti tranne la professoressa di matematica.

«Luca De Micheli, vieni alla lavagna. Così continui il calcolo algebrico.» Il ragazzo si alzò, sbuffando. Si girò verso la classe e poi verso Ibrahim.

«Tu sei morto. A ricreazione», lo disse sottovoce. Il sibilo venne udito dalla classe. Non lo osteggiarono, non lo fermarono.

La professoressa sentì il gelo. Si alzò dalla sedia, e mise una mano sulla spalla del ragazzo. Ripeté la domanda. Luca De Micheli improvvisò una risposta.

«Non sei portato per la geografia, ma oggi hai la sufficienza.»

Finita l’interrogazione, la professoressa si avvicinò al banco di Ibrahim, per guardare i suoi appunti. Era lei il motivo per cui Ibrahim stava lì.

Ibrahim, appena suonata la campanella d’inizio lezione rimaneva nel suo banco. A un minimo cenno di stiracchiamento, tutti si giravano verso di lui.

A casa, aveva provato la tecnica dell’immobilità. Poco respiro, peso in avanti con gli avambracci posati sul tavolo, gambe ben salde per terra.

Nella stanza dove dormiva erano in otto. Tutti del Mali. Lui solo parlava bene l’italiano.

Andava a scuola la sera, di giorno stendeva per strada lunghi teli bianchi.

Anche lì aveva ordini, doveva stare attento a rispettare le zone, e poi a consegnare il denaro. Il capo, un bianco del quartiere, gli dava la sua parte. Un euro ogni venti.

Il suo materasso doveva stare appiccicato alla parete, non un centimetro in più. Bastava rigirare nella notte un braccio e la mano avrebbe toccato la gamba di un altro. La luce veniva accesa dalle dieci di sera in poi. Era un filo bianco, impolverato, appeso ad una lampadina. Fino a mezzanotte. Poi il buio.

E poi venne il venerdì, di un fine giugno torrido, con il sole che spuntava ovunque, dai comignoli, dallo spicchio di polvere che illuminava perpendicolarmente il finestrone della classe fino al suolo, in quella terza fila, dove c’era lui, solo lui.

Era l’ultimo giorno di scuola.

«Come ti sei trovato in quest’anno scolastico?»

«Bene, Prof.»

«So che vieni da un passato difficile.»

«Sì, dittatura in Mali. Li è così.»

«Ecco, qui sei in un mondo civilizzato. Lo capisci, vero?»

Ibrahim sbatté gli occhi. Era contento.

«Ho i numeri.»

«Lo so che ti sei impegnato. Sei stato sempre attento al mio sguardo, non hai mosso un dito, un piede fuori posto. Non hai parlato, non hai fatto troppo chiasso, non hai buttato neppure la carta nel cestino, riempiendolo. Non sei andato al bagno. E in classe non hai mangiato, non hai bevuto.»

«Sì, Prof.»

«Ecco, un’altra nota di merito: dici sempre di sì. Non mi contraddici mai.»

«Sì, Professoressa.»

L’insegnante alzò lo sguardo, inarcando il sopracciglio.

Lei aveva la pelle chiara, rugosa, e anche in lontananza, dal dorso della mano, si contavano le vene, grosse come serpenti di acqua dolce, verdognole.

Si era sempre tenuta a distanza dal suo odore acre, anche quando lui era di fronte alla lavagna. Con un cenno della mano ossuta, dalla pelle un po’ raggrinzita, il primo giorno di scuola gli aveva indicato dove posizionarsi. Un quadrato ideale, disegnato con il dito indice.

lavagna-di-scuola2E ora con lo stesso dito indice puntato, indicò a Ibrahim la strada dell’uscita.

Che poi era sempre la stessa.

«Bene, ora sei in libertà.» Una leggera smorfia di circostanza si stampò sul viso legnoso dell’insegnante.

Di nuovo quel dito puntato solo su di lui. Tutti si girarono.

E il ragazzo si alzò, questa volta senza sorriso.

Ibrahim guardò la finestra che dava sul cortile, un brandello di luce, l’aria, spietata, che arrivò, come vento.

Prese i suoi libri, la penna, il diario, il suo quaderno degli appunti.

E voltò le spalle alla lavagna. A tutto. Per la prima volta.

Il giorno dopo andò a lavorare, sulla strada, fino a tarda sera, con il suo telo bianco.

Poi sentì venire alla sua destra uno strano vociare, una macchina, il rumore delle gomme, e vide gambe che si dimenavano velocemente davanti a lui. E si ritrovò a faccia in giù. Non aveva i soliti pantaloni, né la camicia. Il suo era un vestito di stoffa, lungo, pregiato, uno dei migliori che aveva, con disegni colorati. Stava pensando ai dirupi rocciosi, del Bandjadara, al distretto di Kati, nel Koulikoro, ai canti, alle donne che raccoglievano le noci di karité.

Il primo luglio, il mese in cui nasceva il burro dal grande albero, Ibrahim venne scaraventato per terra. Sbatté il ginocchio. Uno di loro cominciò a storcergli l’avambraccio, e arrivò il freddo, quello del ferro, sui polsi, per poi salire nella pancia.

Erano tre uomini. Li aveva contati tutti, dal respiro.

Una semplice questione di addizione matematica.

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