Spirito critico e formazione del consenso
Bourdieu e gli Oasis
Come nascono le identità (culturali) condivise? Inseguendo le mode complesse (stile Bourdieu) e temendo il pop. Tranne poi scoprire che Kubrick, per esempio, preferiva John Huston alle avanguardie
Succede spesso che un artista osannato sorprenda o deluda il pubblico degli affezionati: coloro, cioè, che tendono ad affidarsi alle preferenze del proprio idolo, quando si tratti di orientarsi nella giungla dei consumi culturali. Càpita, allora, che il profeta indie del rock alternativo affermi di apprezzare qualche bella canzone degli Oasis e che, per un attimo, riusciamo a figurarci le facce allibite o disgustate dei fedelissimi del suddetto, che non avevano mai smesso di considerare i milioni di fan della band di Manchester come dei subumani, più o meno.
Non si tratta di questioni adolescenziali, stiamo attenti: quando ci troviamo a dover assumere decisioni che concorrono alla formazione dell’identità, ogni estremismo concettuale e verbale ci sembra legittimo, perché siamo impegnati in uno dei processi più significativi nella nostra esistenza, quello che coinvolge l’immagine di noi stessi che intendiamo offrire agli altri, oltre che a noi stessi, ovviamente. Non sarà facile, in un tale frangente, ammettere e riconoscere il grado di violenza che esprimiamo nei confronti di chi abbia commesso il peccato di tradire la nostra fiducia, e sprecato il capitale identitario che in lui abbiamo investito.
Meglio fare altri esempi: circola una lista dei film preferiti da Stanley Kubrick (nella foto) che avrà fatto alzare qualche sopracciglio. I suoi gusti, infatti, non sembrano molto sofisticati, non rientrano in quelli del cinefilo medio, del “damsino” italiano o del dottore di ricerca europeo: preferiva i maggiori successi popolari degli anni Trenta e Quaranta, le pellicole di registi (americani) come Howard Hughes, Edward F. Cline, William A. Wellman e John Huston e poco spazio, insomma, lasciava ad avanguardie più raffinate e cinematografie esotiche.
Svelare una natura “di massa”, più comune e meno misteriosa di quella che gli adoratori pretenderebbero significa abbandonarli in mezzo a una strada, dopo aver fatto con loro un lungo viaggio, un decennale percorso di formazione, e tutta la rabbia che da loro viene espressa, nel caso di avvenuta “commercializzazione” della proposta artistica in oggetto o di “normalizzazione” dell’idolo, è così che va spiegata. Si credeva che la persona dalla quale emanava il mito potesse ancora (e indefinitamente) garantire la diversità propria e di chi la segue e si scopre, invece, che non riesce più a svolgere il proprio ruolo, a portare a termine il compito che più ci preme: tenere a bada l’assalto degli altri, mantenere l’efficacia dei confini che impediscano la nostra fusione nella moltitudine.
Mi viene in mente anche Goffredo Parise, uno che non ha mai avuto paura di esplicitare le proprie preferenze più mainstream: amava i gialli di Agatha Christie, come centinaia di milioni di altri lettori, nonché Simenon, Somerset Maugham e Patrick Leigh Fermor, tanto per fare il nome di tre autori che, in Italia, prima della cura adelphiana, non riscuotevano un gran credito, sulle scrivanie dei nostri critici letterari. Quello di Maugham, poi, è un caso unico: il suo è stato il nome di riferimento dell’intero mercato narrativo in un periodo che potremmo sommariamente delimitare come entre-deux-guerres, prima di finire nel cono d’ombra dei suoi ultimi decenni di vita, come se quella che, per Parise, era la sua amabile “banalità” fosse diventata intollerabile, agli occhi del nuovo pubblico degli anni Cinquanta e Sessanta.
Intollerabile o non più utile, semplicemente: che se ne potevano fare della “banalità” di Maugham i nuovi scolarizzati che, nel secondo dopoguerra, richiedevano a gran voce che i consumi culturali fossero in grado di fornire un’identità stabile e “particolare”, singolare, in un contesto di massa che tendeva a sottoporre sfide inedite e difficilissime ai cittadini occidentali che si sentivano scomparire e risucchiare dalla folla delle democrazie?
L’identità, il processo della sua formazione e la “spirale mimetica” in cui ci dibattiamo, quando non riusciamo a ritagliarci la nostra nicchia di differenza, hanno molto a che fare con la violenza, con la nostra debolezza che viene ribaltata in un surplus di aggressività ed estrema competizione: ce lo potrebbe insegnare uno come René Girard, se le nostre facoltà di scienze sociali non continuassero a preferire altri approcci o a neutralizzare ciò che più conta, affogando ogni autentico pensiero critico e mescolandolo con altre ideologiche e vaghe prese di posizione comodamente e confusamente estremistiche. Se un “libretto rosso” esiste, presso i sociologi progressisti occidentali, quello è La distinzione. Critica sociale del gusto di Pierre Bourdieu (nella foto), che non fa altro che riesumare Marx per aggiornare un’analisi di classe alla società dei consumi e delle opzioni culturali di scelta. Meglio sarebbe dare un’occhiata, oltre alla teoria mimetica e vittimaria di Girard, alle “leggi dell’imitazione” del suo lontano progenitore Gabriel Tarde, per riuscire a decifrare come funzionano le nostre smanie di distinguerci, la nostra ossessione di differenziare la nostra identità da quella altrui, specialmente nel tempo del social network, dove innumerevoli altre esistenze possono venire e vengono costantemente monitorate da ogni utente, che si trova a dover competere con le esibizioni schiaccianti dei modelli alternativi al proprio. Disgiungere la propria identità dai propri gusti e consumi è niente più di uno slogan, ma emana un certo profumo di libertà. La genesi dei totalitarismi fu la risposta psico-politica all’impazzimento di comunità che non riuscirono a reggere alle sopravanzanti società di massa, dove ciascun individuo tragicamente si riconosceva troppo uguale a tutti gli altri, e si sentiva sciogliere nell’indistinto.
Poi, per fortuna, c’è chi vive con un senso di liberazione il fatto di poter finalmente riconoscere che gli Oasis, insomma, sono bravi.