Una preziosa rarità bibliografica
Modello de Stael
Ritratto di Madame de Stael (attraverso i suoi scritti): storia di una donna che aveva capito che la Rivoluzione non va mai dritta al suo scopo. L'importante è non metterci la testa in mezzo...
Per capire meglio l’influenza che ebbe una donna, rossa di capelli, sulla politica, sul pensiero politico e sulle Lettere dell’Europa di inizio dell’800, basterebbe riferire quanto comparse su un giornale dell’epoca: «Ci sono tre grandi potenze: l’Inghilterra, la Russia e Madame de Stael». Quella che viene ricordata con questo nome, in realtà si chiamava Germaine Necker, nata il 22 aprile 1766 (è il 250° anniversario) a Parigi ma figlia di due svizzeri (il padre, banchiere e affarista, era ricchissimo). La sua origine elvetica diventò benzina sul fuoco delle polemiche scatenate contro di lei da parte di coloro che la consideravano “straniera” e quindi personaggio improprio nella terra del tricolore. Lei ebbe modo di puntualizzare: io sono francese mentre Napoleone è corso. Oltretutto fece tanto scandalo come donna chi si occupava di politica: erano ancora tempi in cui le mogli, le sorelle e le figlie dovevano invecchiare dentro una gabbia rigidamente patriarcale, di fatto schiave (se povere) oppure abbellimenti dei salotti mondani (se ricche o nobili).
Germaine si sposò con Erik-Magnus de Stael Holstein, ambasciatore svedese. Anche quando si separò dal marito, continuò a portarne il nome (non intero però, quindi un nom de plume). Di cultura raffinatissima, di carattere energico e generoso, ben lontana da stereotipi e ideologismi idioti, ebbe parole di fuoco contro la deriva radicale dei giacobini, poco tenera su Napoleone imperatore (così cinicamente distante dagli ideali della Rivoluzione) si pose come antesignana dell’emancipazione femminile, attentissima a ciò che aveva scritto Rousseau:«Tutti i popoli che hanno avuto buoni costumi hanno rispettato le donne. Pensate a Sparta, ai Germani, a Roma». Stette al fianco dell’inglese William Wilberforce che portò la Camera dei Comuni del Regno Unito a sancire l’abolizione del commercio degli schiavi. Madame de Stael, dopo il ’14, lanciò un appello perché fosse cancellata la tratta dei negri.
Ebbene, questa singolare e poliedrica personalità viene ben tratteggiata da un libro (intitolato Lettere sugli scritti e il carattere di Rousseau – Riflessioni sul suicidio, edito da Bibliosofica, 162 pagine, 12 euro). È la raccolta degli scritti inediti o dimenticati della donna la cui voce apriva stanze politiche e letterarie, talvolta poco spolverate, del vecchio continente. Ottima l’introduzione di Livio Ghersi, che contestualizza il suo profilo in una Francia effervescente, brutale e sempre così vivacissima da plasmare il presente e il futuro dell’intera Europa. Madame de Stael non fu mai inghiottita dal fascino del giovane generale Napoleone che, “rigido come un principe tedesco si parò” di fronte a Sophie, moglie del filosofo Condorcet, e le disse:«Signora, non mi piace che le donne si occupino di politica». Risposta immediata di Sophie: «Avete ragione, generale, ma, in un paese dove si taglia la testa alle donne, è naturale che esse desiderino conoscerne il motivo».
Condorcet, arrestato dal Tribunale rivoluzionario, aveva preferito togliersi la vita prima di posare la testa sulla ghigliottina. Madame de Stael era di eguale tempra e la sua straordinaria intelligenza le permise di capire che in quei decenni piombava sull’Europa, e non solo, una svolta epocale. Ben sapeva la signora, ci ricorda Ghersi, «che l’avanzamento non è lineare». Scriveva Madame: «Assai pochi sono i contemporanei di una rivoluzione, i quali si interessino alla ricerca della verità. Tanti fatti decisi dalla forza, tanti delitti assolti dai successi, tante virtù spente dal biasimo, tanti infelici insultati dal potere, tanti sentimenti generosi divenuti oggetto di motteggio, tanti vili calcoli filosoficamente commentati; tutto contribuisce a stancare la speranza degli uomini, quand’anche fossero i più fedeli al culto della ragione». Indubbiamente la sua prosa è lucida, sintetica ed elegante. Uno strumento molto adatto a decifrare lo stato di sovraeccitazione attraversato dalla Francia.
Notoriamente ironico, il ministro Talleyrand le riconobbe «la vocazione da cane di Terranova». L’occasione fu quando Madame, pur incinta, si prodigò enormemente a salvare vite umane. Si avvalse dell’immunità diplomatica per accogliere all’ambasciata svedese coloro che non avevano più riparo dopo la rivoluzione del 10 agosto, quando Luigi XVI fu sospeso dalle sue funzioni di sovrano costituzionale. L’ambasciata venne poi assaltata dai rivoluzionari, ma lei li convinse ad andarsene. Noti anche i suoi sforzi per salvare la vita di Maria Antonietta. Fu poi la stessa Madame de Stael a consentire il ritorno in Francia di Tayllerand, esiliato negli Stati Uniti. La “signora” stessa patì l’esilio per dieci anni. Approfittò per viaggiare e fare conoscenze eccezionali, soggiornò a Vienna, a Dresda, a Weimar e a Monaco di Baviera. Conobbe filosofi e politici. Lodò le terre del nord. Sempre animata da ciò che aveva riassunto in una frase, ossia “la soggezione di un popolo a un altro è contro-natura”, aveva pubblicato nel 1810 il libro De l’Allemagne, ma le diecimila copie furono distrutte per ordine del ministro di polizia di Francia, che le disse:« Il vostro ultimo libro non è francese».
E veniamo ora ai due temi che danno il titolo del libro della Bibliosofica. Madame de Stael contribuì molto a far confluire l’attenzione degli intellettuali europei sulle opere del pensatore ginevrino, schivo di natura pur avendo «idee esagerate» . Non sposò interamente le teorie dell’autore di Emilio e de Il contratto sociale e ciò le permise di intervenire con più autorevolezza, lontana da qualsiasi “cotta” filosofica. Per esempio: «Ci sono dei passi nelle sue Confessioni che offendono le anime nobili; in alcuni è lui stesso a ispirare l’orrore, a causa dei colori odiosi di cui il suo pentimento li carica…molti avranno il diritto di indignarsi con Rousseau per il fatto che si credeva il migliore tra tutti gli uomini; per quel che mi riguarda questo movimento di orgoglio di Rousseau non mi ha affatto allontanato da lui, ne ho solo concluso che egli si sentiva buono». E ancora…certi suoi passaggi, poco nobili, saremmo tentati di prenderli per atti di follia, colpi di testa…aspetti che non sembrano suoi; è un albero, per così dire, che porta frutti non suoi». Una carezza e una stoccata.
E racconta che Rousseau (nel ritratto qui accanto) amava la solitudine e si teneva lontano dalla cosiddetta società, che amava i contadini e la natura. Madame de Stael ci informa d’una cosa forse poco conosciuta, ossia che aveva una consorte terribile:« Un ginevrino che ha vissuto con Rousseau negli ultimi vent’anni della sua vita, nella più grande intimità, mi ha descritto spesso l’abominevole carattere di sua moglie e le atroci istigazioni di questa madre snaturata per indurlo a mettere i suoi figli in ospizio». Il filosofo era spesso triste, con gli occhi rivolti a terra. Madame poi ricorda che Rousseau «voleva educare la donna come l’uomo, secondo i dettami della natura, e non trascurando le differenze che questa ha stabilito tra l’una e l’altro; non so se è il caso di assecondarla, confermando per così dire le donne nella loro debolezza». Sul pensatore politico, ossia sull’autore de Il contratto sociale, ebbe sempre vaste riserve, preferendo senza dubbio Montesquieu a lui: «…si deve accordare maggior ammirazione al creatore di un sistema anche imperfetto, ma possibile, che al filosofo che, lottando contro la natura delle cose, offre all’immaginazione un progetto senza più difetti». Sintetica la signora di Francia.
Quanto al tema del suicidio, occorre dire che Madame de Stael, nei suoi ultimi anni, ebbe disavventure fisiche e stagioni di forte malinconia, mantenendo pur sempre i principi del Protestantesimo come bandiera della sua navigazione. S’interrogò attentamente sui propositi suicidi di molte persone afflitte dall’accusa di viltà. «Per uccidersi occorre non temere la morte, ma non saper soffrire significa mancare di fermezza d’animo. E’ necessaria una specie di rabbia per vincere dentro di sé l’istinti di conservazione della vita, quando non è un sentimento religioso a chiederci di sacrificarlo…l’infelicità non è quasi mai qualcosa di assoluto: i suoi rapporti con i nostri ricordi o con le nostre speranze ne compongono spesso la parte maggiore, e quando avvertiamo in noi una scossa molto forte, sovente il nostro dolore appare alla nostra immaginazione sotto un aspetto assai diverso». Scrive poi che la volontà suicida hanno come causa, «nei tempi moderni come causa la rovina e il disonore». E aggiunge un pensiero che oggi appare quantomai attuale: «La più crudele di tutte è però la perdita della posizione che si occupava nel mondo… l’immaginazione agisce sia sul passato che sul futuro, e la rottura dell’alleanza con i beni che possediamo è crudele; ma dopo un certo tempo una nuova situazione offre nuove prospettive a quasi tutti gli uomini». Si deve fare molta attenzione a quel “quasi”.