Storie dal Festivaletterature di Mantova
Arte De Gregori
De Gregori parla di sé, la sua vena d''artista (paragonandosi a Nicola Di Bari), dell'impegno caduto, di Celine, di Moby Dick. E boccia Garcia Marquez. Sono i segreti del suo "Passo d'uomo"
Curioso copione quello che chiama insieme sul palco nel cortile del castello di Mantova per il Festivaletteratura, di fronte a un migliaio di persone, due personaggi come Francesco De Gregori, cantautore di lungo corso, e Antonio Gnoli, raffinato giornalista. Un inventore di canzoni che, superata la soglia dei sessant’anni, sembra deciso e pronto a fare il punto sulla propria vita e un rodato cronista culturale consacrato da una rubrica settimanale su Repubblica che ogni settimana ripercorre la storia culturale italiana dell’ultimo mezzo secolo interrogando personaggi che da vari versanti hanno contribuito ad animarla. Un confronto ravvicinato che ha preso corpo in un libro intitolato Passo d’uomo (Laterza, 230 pagine, 16 euro), di cui entrambi ora sono venuti a parlare.
Una sorta di intervista in pubblico che ripercorre i passi di un’intervista in privato protrattasi per vari mesi fino a trasformarsi in complice amicizia. Inutile aggiungere altre domande, non resta che ancorarsi a quel che è già scritto. E alla gerarchia di quel titolo che evidenzia in grassetto il nome di Francesco De Gregori e relega al ruolo di semplice accompagnatore, «con Antonio Gnoli» aggiunge il sottotitolo, l’altro interlocutore.
È lui, il cantautore, che tanta gente è venuta ad ascoltare, per vedere, capire com’è e chi è senza chitarra in mano, senza riflettori che si accendono e si spengono ad ogni brano; questo signore dinoccolato con la barba brizzolata, un volto da adulto e modi da ex compagno di scuola, accentuati da quel buffo cappellino che lo accompagna come un vezzo da primattore dentro e fuori scena. E magari capire se è valsa la pena tributargli tanto successo, affidare alle sue canzoni il compito di riassumere la nostra vita, contare il tempo di molti di noi.
Un dubbio, una curiosità che deve esser venuta anche a lui, perché questa voglia di dirsi ora che l’anagrafe lo fa padre di se stesso e non più figlio di una generazione perduta o comunque alle spalle, sa di ripasso esistenziale nella libertà di chi non ha più nulla da perdere. E ha imparato a fare spettacolo della propria sincerità.
Per questo non suona affatto arrogante il suo rivendicare a sé come cantante e musicista pop, il titolo di artista. Che usa lettere minuscole come una registrazione da passaporto ed estende senza riserve a chiunque fa con dignità il suo mestiere. Facendo un esempio che fa rabbrividire in platea molti suoi fans più intransigenti. Quello di Nicola Di Bari, altra musica, altro pubblico, ma «una gran bella voce», usata con grande talento e misura. E poi «una persona vera che non ti aspetti, che magari ha letto meno libri» ma sa dare un senso alla vita, sa interrogarla con grande profondità.
De Gregori si definisce artista ma mal sopporta di esser considerato un intellettuale. E riesce con grande efficacia a spiegare il perché ad Antonio Gnoli che lo incalza, gli rinfaccia la cultura che ha accumulato e riecheggia nelle sue canzoni, i libri che ha letto, i film che ha visto e di cui sgrana con stupefacente acutezza citazioni e ricordi. Il fatto è che ritrarsi solo come artista è un modo di sdoganare la propria libertà creativa, svincolarlo da giudizi morali, inquadramenti ideologici. «Chi si sognerebbe oggi – aggiunge – di negare la grandezza di innovatore e di autore ad un personaggio sgradevole come Celine, nonostante le sue scelte moralmente discutibili, le sue infatuazioni politiche. A nessun artista può essere imposta questa briglia. Un artista non deve rispondere delle qualità etiche di ciò che ha prodotto. Un intellettuale invece non può e non deve sottrarsi a questi giudizi, deve rispondere delle posizioni che ha preso e che prende».
Ma allora che cos’è arte per Francesco De Gregori? «La capacità di arrivare al cuore della gente, attraverso la via misteriosa e immediata dell’emozione. Una comunicazione in presa diretta che poi certo può e deve far posto ad altre conoscenze, studi, approfondimenti, analisi di linguaggio. La potenza di Guernica di Picasso ti colpisce al primo impatto poi, certo, se approfondisci le conoscenze sulla guerra civile spagnola, sull’estetica del cubismo, puoi scendere più in profondità, dare più corpo e consistenza all’emozione. Ma la semplicità di quella prima scintilla è inarrivabile. Il segreto è lì.
Già, il tocco magico della semplicità. È quello che manca alle canzoni di De Gregori, al suo modo di usare come strumenti le parole. «Non riesco a resistere all’horror vacui – confessa – dove la musica, il ritmo, apre uno spazio io tendo a riempirlo con un fiume di parole. So che sbaglio, ma è più forte di me. Sono così e in fondo non me ne pento».
Non si pente Francesco De Gregori neanche dei drastici giudizi, delle personalissime oscillazioni di gusto con cui ha costruito la sua biblioteca. Dichiara ad ogni passo la sua adorazione per Moby Dick, ma non esita a confessare che Garcia Marquez l’ha sempre giudicato stucchevole, che di Cento anni di solitudine si è fermato a metà, come ha fatto per tanti osannati capolavori.
E la politica, l’impegno? No, non sono più gli stessi di quando era ragazzo. Sente che il mondo gli, ci sfugge davanti, sempre più inafferrabile. E rifiuta di corrergli dietro. Va a passo d’uomo. Certo si fa opinioni e le esterna, ma ha sempre meno certezze. Attento a non perdere quella che conta di più: la dignità di essere uomo e da uomo comportarsi con gli altri uomini.