Una novelle inedita
Quando sei morto non puoi lavarti dietro le orecchie
«Mentre m’insaponavo, mi venne in mente che avevo dimenticato una cosa: quando sei morto non puoi lavarti dietro le orecchie. Avrei dovuto rimediare»
Il giorno che morì mia madre mi sono fatto un bagno nella casa dove sono nato. L’acqua che sgorgava dal rubinetto gonfiava la schiuma del sapone, lo stesso che avevo usato per pulirla intorno alle labbra screpolate con una spugna azzurra. La vasca color crema era più grande di quanto mi ricordassi, rimasi a guardarla con le lacrime impigliate tra le ciglia come mosche nella tela di un ragno.
Mentre m’insaponavo, mi venne in mente che avevo dimenticato una cosa: quando sei morto non puoi lavarti dietro le orecchie. Avrei dovuto rimediare. Tornare di là. Spostarle i capelli e infilare le dita tra la pelle gelida della testa e i padiglioni auricolari poi con la spugna azzurra pulirla per bene, l’avevo fatto tutte le mattine nell’ultima settimana e anche se tra poco l’avrebbero preparata per una cassa pensavo che dovevo ripeterlo ancora un’ultima volta, però non riuscivo a fare altro che rimanere sdraiato nell’acqua. Sentivo che a poco a poco si faceva sempre meno calda ma non mi mossi nemmeno per riaprire il rubinetto, me ne stavo a mollo e mi fissavo le dita dei piedi che emergevano ossute con le unghie lucide che avrebbero dovuto essere tagliate.
Immersi la testa e chiusi gli occhi.
«Sento freddo» disse lei.
Tirai la testa fuori dall’acqua.
La sua voce mi era giunta così forte che avevo la sensazione di doverla vedere da qualche parte accanto a me. Mi guardai intorno mentre sentivo la pelle rabbrividire. Era vero che adesso faceva freddo. Allora aprii di nuovo il rubinetto e lasciai che la temperatura dell’acqua salisse fino a diventare quasi bollente. Rimasi immobile per non so quanto tempo in attesa di sentirla parlare di nuovo, ma non accadde niente. Era morta, no? Lentamente ripresi a ragionare e mi convinsi che non era poi tanto assurdo che avessi sentito così bene la sua voce; negli ultimi giorni il mio animo spelacchiato era stato scarnificato fino al cuore così tutto poteva succedere dentro di me. E quante volte nella nostra relazione così appiccicosa le avevo intimato di restarsene in silenzio ogni tanto, perché era una che parlava sempre; anche se quasi mai a sproposito, pronunciava sempre la frase giusta al momento giusto.
«Ernesto ci ha rovinato» disse.
Mio padre se n’era andato da casa nostra una domenica notte a primavera. La mattina del lunedì mamma non si era alzata dal letto. E nemmeno la mattina seguente e quella dopo ancora. Era rimasta sdraiata per una settimana, con la scusa di un’influenza. Poi la domenica successiva alle sette e un quarto mi aveva svegliato aprendo tutte le finestre di casa persiana dopo persiana. Da quel giorno aveva cominciato a riempire la casa di piante. Niente fiori recisi che per lei erano cadaveri variopinti, solo piante vive con i fiori che rinascono quando arriva la stagione giusta, se le tratti bene. A me non piacevano, perché c’erano profumi troppo forti in tutte le stanze e quando aprivi le finestre entravano le vespe. Gli occhi mi lacrimavano e sembravo sempre raffreddato per via dell’allergia.
Tre mesi dopo che Ernesto era scappato di casa, come un ladro nella notte e senza nemmeno salutarmi, era nata l’altra sua figlia, Alexandra. A chiamarla così, con la x invece delle s, era stata la moldava di ventisei anni che sarebbe diventata la sua seconda moglie.
«È diventato così banale, si è dimenticato di quando eravamo poveri».
Nelle foto che si erano scattati durante i primi giorni del loro amore, i miei apparivano troppo secchi con maglioni o magliette troppo larghe, poi Ernesto aveva cominciato ad accumulare denaro e nelle foto sembravano aver messo su qualche chilo, oltre a vestirsi meglio: lui un completo, lei dei vestiti quasi sempre a fiori. Per qualche motivo misterioso lui, che sembrava incapace di fare le cose più semplici della vita, riusciva a guadagnare con facilità. Quando io avevo dieci anni noi tre eravamo ricchi, ma poi Ernesto ci aveva lasciati per la sua amante di ventisei anni, e così io e mamma siamo tornati poveri. C’era rimasto il bonifico che Ernesto versava ogni mese sul conto di mia madre e l’appartamento di via Reno dove era morta mamma, oltre al minuscolo monolocale sulla Tuscolana dove erano vissuti loro due da giovani e adesso ci stavo io. I frutti della ricchezza erano coltivati da un’altra parte e tutti sapevano chi faceva la raccolta: la sua seconda moglie e la figlia Alexandra.
A mia madre era spuntato un bozzo sulla pancia.
«Il regalo di Ernesto».
Non dire così. Il vostro è stato un grande amore.
«Più grande è l’amore, più grande è la fregatura».
Comunque quella volta si era trattato solo di una ciste sebacea. C’erano voluti molti anni per farla ammalare sul serio e nel frattempo io ero diventato grande e me n’ero andato, accumulando un certo numero di quegli amori che nascono già finiti.
«È una malattia psicosomatica».
Io non credo alle malattie psicosomatiche.
«Lo so. Non credi neanche al potere vitale dei fiori».
* * *
Il giorno che morì mia madre decisi che avrei tolto le piante dalla sua stanza. Diceva che il profumo dei fiori la faceva stare meglio e che mentre lottava contro la malattia guardare i petali colorati le ricordava di essere ancora viva. «Anzi, Matteo, vorrei tanto un rododendro come quello che mi regalò Ernesto la prima volta». Un rododendro? «Sì. Un rododendro perché mi rode tanto». Le avevo portato una specie di albero che aveva sistemato al centro della parete di fronte al suo letto. Sarebbe stato il primo a finire fuori dai piedi.
Dal bagno alla sua stanza c’era un corridoio che a dieci anni mi sembrava lunghissimo. Anche quel giorno sembrava lungo. La spugna azzurra era ancora umida. Annusai il lieve profumo di sandalo. Entrare nella stanza di mia madre significava immergersi in un’atmosfera di odori che si erano accumulati nel tempo, profumo di piante e malattia, petali e disinfettante, terriccio e sudore. Ma era il silenzio che non stava bene in quella casa. Il silenzio e quel corridoio lungo. Quel corridoio scuro anche di giorno se le porte delle stanze erano chiuse.
«Hai paura?»
No.
«Ti capisco se hai paura, sono morta».
Strinsi in mano la spugna azzurra e avanzai verso la camera da letto. Dovevo pulirla dietro le orecchie perché era una cosa che andava fatta.
Pulirla per bene.
Dietro le orecchie.
Accesi la luce e il corridoio sembrò molto più corto.
Avanzai di due passi e prima di abbassare la maniglia della porta mi dissi che non era paura, era solo che faceva male vederla come una cosa morta tra i suoi fiori vivi.
I canali bluastri delle vene sul pallore del corpo magro.
I capelli sciolti.
La sua faccia raggrinzita con le labbra socchiuse.
Entrai nella stanza.
«Ti faccio spavento» disse lei.
No. Non tu.
Mi spaventò il fatto che nella stanza non ci fossero più i fiori.
* * *
Ci volle qualche minuto per accorgermi che il pavimento della camera era lucido e che ogni cosa era stata spolverata, quindi probabilmente la donna delle pulizie aveva portato via i fiori mentre ero di là a fare il bagno. Mi guardai le dita raggrinzite. Chissà quanto tempo ero rimasto nell’acqua. Aveva avuto tutto il tempo di venire, pulire e andare via. Ma come le era venuto in mente? Che poi chissà quanta fatica ci aveva messo a fare quella cosa così stupida, anche quando veniva a casa mia faceva danni, non si contavano i piatti rotti, ma questo era troppo.
Mi avvicinai al letto di mia madre senza più nessuna paura, le spostai i capelli e feci quello che dovevo fare: la spugna azzurra passò due volte sulla sua pelle fredda dietro le orecchie.
Giusto così.
Rimasi fermo a guardare il volto senza espressione nella stanza spoglia. Al posto del gigantesco rododendro c’era il vuoto.
«Devi dirlo a Ernesto che Giovanna è morta».
* * *
Nell’ascensore di metallo del mio palazzo mi prese una certa inquietudine. Sul principio non capivo cosa fosse a disturbarmi, la luce al neon era fredda come al solito, qualche ragazzino aveva approfondito i graffi fatti con la chiave sulla parete, lo specchio era stato incrinato una settimana prima e io non mi ci vedevo diverso dalla sera precedente. C’era un odore lieve di petali sfioriti che mi portavo dietro da casa di mamma. Non era bastato un bagno, ci sarebbero volute chissà quante docce.
Quando spalancai la porta del mio appartamento, allora sì che il profumo mi riempì le narici. E negli occhi che cominciavano ad offuscarsi si confusero i colori. Nell’ingresso c’era il rododendro con accanto le gerbere gialle, le rose e i tulipani arancioni. Andai in cucina e ci stavano le orchidee, le azalee e le calle bianche. Un geranio rosso era in bagno dentro la doccia. Sul comodino in camera da letto un vaso di peonie fucsia e al centro del mio cuscino c’era un quadernetto nero con i bordi delle pagine rosse.
Gliel’avevo visto in mano tante volte.
«La cura» disse mia madre.
Cominciai a leggere: le piante nei vasi piccoli si annaffiano più spesso di quelle nei vasi grandi; le piante in pieno sole più spesso di quelle all’ombra; le piante giovani più spesso di quelle adulte; le piante che fioriscono in inverno non devono mai asciugare in inverno; le piante che fioriscono in estate vanno annaffiate pochissimo in inverno. Per sapere se una pianta ha bisogno d’acqua devi infilare un dito nel terriccio, se è asciutto devi annaffiare; i vasi piccoli devi alzarli, se sono leggeri devi annaffiare; l’acqua deve essere sempre abbondante, ma non deve restare nel sottovaso altrimenti fai marcire radici.
«Ci vuole solo un po’ di cura».
* * *
Era stata senza dubbio mia madre a chiedere che piante e fiori fossero portati nel mio appartamento dopo che lei si fosse dispersa nella pioggia e nel vento oppure avesse cominciato a cavalcare nelle verdi praterie oppure nell’olimpo degli dei oppure tra le ombre lamentose oppure insieme ai settantadue vergini oppure nel fuoco del purgatorio in attesa della luce eterna oppure reincarnata in un anemone oppure nel nulla che nullifica oppure in qualunque altro modo lei si fosse immaginata il dopo.
«Se nessuno li annaffia si seccano».
Lo so ma non me ne posso occupare io, pensai componendo il numero telefonico della casa dove viveva mio padre.
– C’è il signor Ernesto?
– Chi è che lo vuole?
– Il figlio.
«Chi ha risposto?» Una voce di donna. «Sua moglie?» No, è una voce giovane. «Allora è la figlia di tuo padre, Alexandra».
– Tu sei Matteo?
– Sì, scusa, vorrei parlare con Ernesto.
«È Alexandra?»
La voce giovane rimase in silenzio per un attimo, poi riprese a parlare. Mi chiese come mai non ci eravamo mai incontrati. Io le dissi di lasciar perdere. Mi ci volle una certa fatica per aggiungere che la pregavo di farmi parlare con mio padre ma lei replicò che sarebbe stato giusto conoscersi meglio.
– Io sono Alexandra.
«Te l’avevo detto». Il profumo dei fiori aleggiava nel mio appartamento. Era stato inutile anche aprire la finestra. Sembrava che ci volesse molta più aria di quella che circolava tra un palazzo e l’altro di via Tuscolana per rendere la stanza meno soffocante.
– Io sono la sorellastra.
Alexandra aveva un tono ansioso nella voce che mi fece venire voglia di essere gentile, le sussurrai che non era questione di sorelle e sorellastre ma era successa una cosa grave e dovevo parlare con mio padre.
Nessuna replica.
Solo i passi che si allontanavano e dopo qualche minuto in cui credevo che fosse caduta la linea arrivò il respiro di Ernesto che non riusciva a parlare. Rimanemmo zitti tutti e due per un po’. Io non sapevo come si dovesse dire una cosa come quella che era successa e lui aspettava.
«Testa che non parla si chiama cucuzza». Qualche volta è difficile parlare. «È troppo facile stare zitti». Comunque non mi vengono le parole. «Tu ed Ernesto siete uguali». Uguali? «Lui è grande e grosso ma non sa quando parlare e quando stare zitto. Come te».
Tu, invece, non puoi stare in silenzio, ogni tanto?
Non sopportavo quando mi diceva che ero uguale a mio padre, anche se pensai che fosse davvero assurdo intimare a una morta di tacere.
Fu Ernesto ad aprire bocca, ma disse solo: – Quando?
– Oggi.
Sentivo nelle orecchie i suoi sospiri e aspettavo che dicesse qualcosa in più. Mi sembrava che avrebbe dovuto provarci a dire due parole, perlomeno quelle che tutti dicono in certe occasioni. Ma non gli veniva niente, solo sfiatava a intervalli regolari.
Guardai il rododendro con i fiori purpurei appoggiato alla parete del mio ingresso. Quando l’avevo comprato non era così grande. E sicuramente non profumava così tanto.
Intanto Ernesto stava zitto e sfiatava. Gli comunicai l’orario del funerale.
Lui disse: – Grazie Matteo.
E io: – Prego Ernesto.
– Non mi chiami papà?
– Come vuoi. Ciao papà.
Riattaccai, ma avrei dovuto dirgli almeno come era andata. Come Giovanna avesse smesso di parlare una sera all’improvviso. Come avesse fatto una specie di singhiozzo e poi non avesse detto più niente. Il volto era rimasto fisso e avevo pensato che fosse morta; ma era troppo presto. Io continuavo a parlarci come al solito, la chiamavo, la coccolavo, e mi chiedevo se mi sentisse. Speravo di poterglielo chiedere una volta che fosse stata meglio.
Invece non hai parlato più, meno male che adesso ti sento di nuovo.
Rimasi in silenzio nella mia casa mentre annusavo il profumo dei suoi fiori.
Puoi parlare.
Puoi parlare, se vuoi.
Me lo dissi qualche volta nella testa, in attesa, ma non accadde niente.
– Puoi parlare se vuoi, mamma – dissi ad alta voce.
E cominciai a ripeterlo sempre più forte: – Puoi parlare se vuoi. Puoi parlare, mamma. Puoi parlare se vuoi. Se vuoi. Puoi parlare. Puoi parlare se vuoi. Puoi parlare.
Alla fine gridavo.
Poi mi fermai in attesa, ma intorno a me c’erano solo silenzio e profumo di fiori e terra. Poi un neonato cominciò a strillare nell’appartamento accanto e un aereo passò sopra il palazzo. Nient’altro. Nella mia casa, restavano solo i fiori e le piante, almeno fino a quando non li avrei fatti portare via. Prima di andare a letto pensai che adesso se n’erano andati via tutti. Ernesto con Alexandra, la sua seconda moglie e i suoi silenzi. Tutte le mie ragazze che non resistevano mai troppo a lungo. E alla fine anche Giovanna, la mamma che parlava troppo.
«Ma non lo sai, Matteo, che nessuno se ne va mai veramente?»
* * *
La morte della madre è la terra che diventa arida.
«Ci sarai tu arido, non diventarmi retorico».
Ma la madre ti muore una volta sola nella vita.
«E allora? Vuoi dirlo a me?»
Avevo rovistato a lungo nel mio armadio per trovare qualcosa di adatto alla cerimonia, ma l’unica maglietta pulita era azzurra con i quattro fantasmini di Pacman: Bunky, Pinky, Inky e Clyde.
«Pacman va benissimo, disse lei».
Non l’ascoltai e scesi a comprare una camicia blu scuro. L’indossai sopra un paio di pantaloni neri e mi guardai nello specchio.
«Sembri un corvo, dove vai vestito così?»
Al funerale.
«E che sei morto tu?»
Sono vestito come un figlio che va a seppellire sua madre.
«Sei vestito come un figlio noioso, conformista e brutto».
Mi guardai intorno, la casa era ancora piena delle sue piante. Staccai un geranio rosso e lo infilai all’occhiello della camicia.
Come sto adesso?
«Brutto uguale, ma almeno hai un po’ di colore».
Tu sei stata una figlia dei fiori?
«No. Sono una nipote dei fiori».
E che vuol dire?
«Mio papà, lui era un figlio dei fiori».
Nel mio albero genealogico ci stava di tutto. Da parte di mamma: bisnonno partigiano, nonno hippy, madre nipote dei fiori e io con l’allergia. E da parte di papà: bisnonno volontario nella guerra di Spagna, nonno ingegnere a Bombay, padre con due mogli e io solo come un cane. Oltre a una serie lunghissima di altri individui da parte di mamma e da parte di papà. Esseri che nessuno si ricordava più, come se fossero stati superflui; e se le cose continuavano così ci sarei stato anch’io tra i superflui, visto che l’unico momento eroico della mia vita era stato il viaggio a Milano per il concerto dei Radiohead. Anche da quel punto di vista ero proprio l’ultimo: nonno aveva visto i Beatles all’Adriano e i miei non se n’erano persi uno: Springsteen, i Clash, i Police, gli U2, Peter Gabriel, i Talking Heads, Bob Marley, quando erano ancora tutti giovani e vivi.
Ernesto mi abbracciò appena arrivato di fronte alla chiesa. Da molti anni avevo perso l’abitudine di sentire il suo corpo così vicino e forse non l’avevo mai sentito piangere. Singhiozzava e sfiatava come al telefono. Diceva: – Giovanna, Giovanna –. Fissai il mio sguardo su qualunque cosa che non fosse lui fino a fermarlo sulla sua automobile tedesca argento metallizzata.
«Quella costa più del tuo appartamento».
Durante la cerimonia piansi due o tre volte e al momento delle offerte, Ernesto infilò un assegno bancario nel cestino insieme ai pochi euro degli altri presenti.
«Almeno poteva metterlo dentro una busta»
Il prete comunque ne fu ben contento, guardava il cestino con la coda dell’occhio mentre aspergeva d’incenso la bara e poi cominciò a commentare con eccessiva passione la vita di nostra sorella Giovanna che secondo me non aveva mai incontrato.
Dopo il funerale tutti parlavano d’altro.
Ernesto smise di sfiatare e mi chiese: – Lavori?
Se si poteva considerare lavoro la collaborazione con l’agenzia di due illusi che volevano fare soldi con la pubblicità etica, allora lavoravo.
– Sì.
Lui sorrise e mi sfiorò piano la guancia come una vespa ma senza pungiglione. Sembrava volesse dire qualcosa tipo: mi ricordi Giovanna, ma non gli uscivano le parole.
– Ti ricordo mamma?
Ricominciò a sfiatare.
Solo alla fine del mese compresi la sua domanda sul mio lavoro. Non ci avevo mai pensato fino a quel momento, ma era logico che dovesse accadere: il bonifico per mia madre non comparve sull’estratto conto.
«Va tutto bene» disse Giovanna. «Adesso non ci può rovinare di più».
E da quel momento smise di parlare davvero o forse ero io che non potevo sentirla, preso com’ero dalla fatica di costruire da solo la mia vita e coltivare i suoi fiori.