Italia, primo agosto/4
Black out
C’è un vento rumoroso e umido che mi scompiglia i capelli. Sono vicinissima al lungomare di Via Caracciolo e già la salsedine mi entra nella pelle e nelle orecchie e mi sento tutta attaccata.
– Chi ha fatto pipì qua a terra? – dice severo Carlo V D’Asburgo, indicando con un dito una pozzanghera d’acqua.
– Io non ne so niente. – risponde rilassato Carlo III di Spagna, con la mano molle in tasca.
– A’ colpà è a’ mia, e allora? – confessa orgoglioso Gioacchino Murat con il palmo al petto.
– Tagliategli la testa! – interviene bruscamente Vittorio Emanuele II, sguainando la spada.
– Te la ricordi la storiella, Anna?
– Sì ma mica è la testa… è il pisello!
La facciata con le statue dei sovrani del palazzo reale a Piazza Plebiscito guarda il Pantheon napoletano, la neoclassica Basilica di San Francesco di Paola mentre la scultura equestre del re di Napoli Ferdinando I giganteggia davanti alle massicce colonne sul suolo pendente e storto, parallelamente a quella del padre, Carlo III di Borbone.
– Roberto stasera che ha? Lo vedo strano.
– Non lo so Anna, forse ti stai solo impressionando.
Una cannonata alla schiena. Che dolore cane, cristo! Prendo in mano il Supersantos mezzo sgonfio, lo lancio in aria e boom!, un colpo secco a pallonetto verso i ragazzini in fondo alla piazza e per poco non prendevo in pieno un piccione e mi fanno anche un po’ schifo i piccioni, sono topi volanti che mangiano merda. Un coro di grazie mi ritorna confuso.
– Guardali Anna, quanti anni possono avere? Sei, sette? Guarda là come palleggiano.
– Tu sai qualcosa e non me lo vuoi dire…
– Ma che stai dicendo? Sei pesante, come sempre. Eccolo là Roberto… sta arrivando con Simona.
– Robè ma che fai? E dai lasciami! – esclamo con voce lamentosa, dibattendo le braccia da esseoesse.
– Ià, vediamo se sei capace… – mi dice divertito.
Roberto mi mette un fazzoletto di mille strati davanti agli occhi, mi copre sopra e sotto e non vedo un accidenti. Lo devo tenere anche con la mano, ben stretto.
– Allora, tu ora stai davanti al portone d’ingresso del Palazzo Reale girata di spalle. Il portone della basilica è perpendicolare, esattamente di fronte. Una sola linea retta. Vai… cammina adesso! – intima, spingendomi con la mano secca sulla schiena bagnata di sudore.
Lui intanto mi segue a ruota e mi tocca pure il culo, fingendo un improbabile, plateale orgasmo e mi fa ammazzare dalle risate.
C’è un vento rumoroso e umido che mi scompiglia i capelli. Sono vicinissima al lungomare di Via Caracciolo e già la salsedine mi entra nella pelle e nelle orecchie e mi sento tutta attaccata.
– Teschi maledetti! Ma me lo vuoi dire, stavo inciampando! Mi sono fatta pure male. Queste più che fortuna portano sfiga. Maledetta arte contemporanea! – bestemmio dio e tutti i santi massaggiandomi goffamente la caviglia dolorante.
Mi tolgo la benda improvvisata e mi trovo completamente sulla sinistra della piazza… altro che dritto! Per poco non mi buttavo dal parapetto di Via Console sul parco del Molosiglio, direttamente dentro alla fontana dei Leoni. Un bel tuffo nelle lacrime napoletane. Roberto, intanto, si scompiscia dalle risate. D’improvviso si fa serio assumendo un atteggiamento da grottesco amante latino. Un ragazzo non molto alto e dalle braccia grosse, con le labbra carnose, pelle scura, passeggia davanti a noi e i jeans stretti mostrano il sedere muscoloso. Gli occhi suoi orientali, calamitati su quelli a pesce di Roberto, fanno scintille degne di quelle commedie sentimentali americane.
– Mamma mia questo… Vedi quanto è bello, cosa non gli faresti? – mi sussurra imitando una raffinata voce da trans all’orecchio.
– Invece di fare il cretino, dico io, perché non parli con Anna e le dici che non ti piace la figa? E’ la tua migliore amica, o no ? Robè m’ascolti? – domando infastidita.
Roberto si è fatto scuro in volto. Gli occhi lucidi sui lineamenti sottili.
Le sei di pomeriggio di un primo agosto magro come sempre e i motorini ammassati di fronte al baretto di Piazza Trieste e Trento, già pronti per i giri dissennati della sera, nei quartieri che si diramano fitti da Via Toledo, con le ragazzine dipinte e preparate allo struscio domenicale, un via vai costante sempre sulla stessa strada, avanti e indietro, tra le osservazioni becere dei giovanotti sui loro seni ammiccanti. Un bambino con un caschetto biondo cade dal monopattino, il muso tremolante che trattiene il pianto.
– Alfonsino, mo’ me aie scassato! E’ bbuo’ o no le pastarelle ppe’ a’ festa toja? – fa il papà strattonandolo per un braccio. Accanto, l’africano ripete a voce bassa Spicc spicc, fa su e giù con la testa in un ritmo nevrotico, seduto con la schiena appoggiata al muro, mentre gli occhi guardano il cielo, l’aria cattiva che respira le pisciate dei cani al guinzaglio. Quelle sue vulcaniche convulsioni inghiottiscono il vuoto del bicchiere di carta del Mc Donald’s davanti alle ginocchia nude.
Anna e Simona fumano sedute a cavalcioni sul leone titanico sotto il colonnato, però non quello sopravvissuto alle scritte demenziali, ma l’altro che chiamo 1312 che sta per ACAB perché ci sono passati loro, gli ultras. Magari non sanno nemmeno che cazzo significa, ma l’hanno scritto con la vernice gialla, su una natica.
Il sole comincia ad acquietarsi e sulla collina del Vomero la Certosa di San Martino, dietro al palazzo della prefettura, nella madida foschia lentamente s’impolvera di luci, colori e ombre. Mi fermo lì con Simona mentre Anna e Roberto si allontanano in fondo. Li vedo parlare animatamente intanto che camminano finchè li perdo di vista, sarà il buio e qualche tiro di canna offerto da due sconosciuti che volevano attaccar bottone.
Dopo una mezz’ora ritorna Roberto, solo.
– Non vuole più parlarmi. Mi ha insultato. – fa con voce annodata.
– Adesso dove sta?
– Ho visto che camminava sulla salita del Gigante verso il lungomare.
Mi accendo una sigaretta, cammino svelta facendo lo slalom tra le capuzzelle nere di ghisa che spuntano dall’asfalto, attraverso la piazza per raggiungere Anna che non sarà molto lontana, la via è unica e non ci sono stradine in mezzo. Il mare è inquieto, l’acqua batte con insistenza sopra i faraglioni artificiali, impenetrabili come lo schermo di un pc quando non vengono le parole. Le barche lampeggiano, sicure.
Eccola là, Anna. A contemplare i paesi vesuviani sul davanzale della piazzetta, di spalle alla statua imbrattata di Giulio Cesare, mentre due ragazzi tagliano la coca con le carte napoletane sulla panchina di pietra.
Le prendo il braccio, mi guarda e si rigira. Nemmeno si è accorta di tenere ancora gli occhiali da sole.
– Perché hai reagito così? Andiamocene di qua e chiedigli scusa. – dico spazientita.
– Lasciami in pace… Ero l’unica cretina che non lo sapeva. Lo doveva dire prima a me. – Sua Maestà Anna ha parlato.
– Beh, si vede che ti conosce bene e non solo lui!
– Proprio da te – dice ridendo sarcasticamente – non accetto lezioni di vita…
– Questa poi… Sai che c’è? Sei un’ipocritica, una bacata del cazzo. Vaffanculo và.
Devo calmarmi. Sono diventata tutta rossa in faccia e la testa mi sbatte. Le lascio il braccio e me ne vado. È meglio che rifletta da sola.
Mi accendo un’altra sigaretta, ingoio i muchi salati. Stavolta cammino lentamente mentre i pensieri si accumulano come i vestiti di una settimana sul divano. Un black out. I lampioni affusolati del Gigante si spengono tutti d’un botto. Un rumore di vetri rotti intorno, forse lo sbalzo di tensione ha spaccato qualche lampadina. L’allarme di un’auto o di una casa mi confonde la testa. Il brusio delle voci, nell’aria buia, comincia a essere più chiaro e definito e i discorsi s’intrecciano in un flusso senza significato. Un motorino a fari spenti mi passa di lato e mi colpisce il fianco con lo specchietto. Mi volto per cercare Anna. Ma non riesco a vedere nessuno, nemmeno l’ombra del mio corpo sul marciapiede basso.