Cartolina dall'America
Why Trump is unfit
Donald Trump, è vero, non si è sporcato le mani con certi ingranaggi della politica ma se le è sporcate altrove, e in maniera molto pesante. E soprattutto non esita a usare metodi autoritari e sbrigativi: per questo è inadatto a gestire la complessità del presente
Quella che per alcuni può sembrare una caricatura di cui Maurizio Crozza farebbe un’imitazione perfetta – così come fa di un suo clone, anche se in tono molto minore, Flavio Briatore, che ha copiato il suo show (The Apprentice) dove ci si vanta di dire “you are fired”(sei fuori) – qui in America, purtroppo, è una figura politica. Donald Trump è infatti uno dei due contendenti alla presidenza degli Stati Uniti. Apro qui una parentesi per lodare la genialità di Crozza il quale non solo si trasforma nei suoi personaggi di cui diventa una copia di carta carbone, ma ne coglie lo spirito, l’essenza. Così di Briatore enfatizza le caratteristiche fondamentali che sono l’ignoranza abissale e la megalomania. Due elementi che sono peculiari di Trump in aggiunta alla sua proverbiale arroganza e che potrebbero far sorridere se si limitassero a riempire le cronache mondane dei giornali o le riviste di gossip, ma che preoccupano molto visto il suo ruolo politico. Trump, infatti, oltre a essere molto più pericoloso di Briatore per ovvi motivi, a noi italiani ricorda terribilmente quel Silvio Berlusconi i cui danni provocati al paese stiamo ancora pagando e pagheremo per lungo tempo. Non solo in termini economici, e culturali, ma anche di mentalità e di immagine dentro e fuori l’Italia.
Trump potrebbe diventare il capo della nazione più potente e influente del mondo con conseguenze disastrose. In Europa è difficile capire come un personaggio del genere possa essere arrivato tanto in alto ed esercitare tanto fascino e si sprecano le semplificazioni e gli stereotipi sugli americani ignoranti e faciloni. In realtà la situazione appare un po’ più complessa.
Le due Convention hanno mostrato lo spirito di due partiti: uno, quello repubblicano, spappolato al suo interno e guidato da un demagogo, l’altro quello democratico, forte e unito, finalmente con un’anima sola, alla cui testa c’è una professionista della politica sulla breccia da decenni che sa il fatto suo anche se non è amata da molti per la sua eccessiva sete di potere e per i vari scandali in cui è stata coinvolta. Ma, certo, tra i due non c’è storia su quale sia più qualificato. E allora dove sta il problema? Perché c’è tanto timore che Trump possa vincere queste elezioni? Il che, è opportuno ripeterlo, sarebbe un disastro sotto tutti i punti di vista. E certo non dipende né dall’ingenuità né dalla faciloneria degli americani. I fattori oggettivi sono altri e sono dovuti in parte all’incertezza della situazione mondiale; in parte a quella interna americana dove c’è stata una crisi economica che ancora non si è risolta del tutto e che ha aggravato le diseguaglianze sociali e economiche; in parte alla presidenza del primo nero alla Casa Bianca. I colpi di coda del colonialismo, di un capitalismo rampante e del razzismo sono sempre terribili e nel momento in cui queste bestie stanno stramazzando le loro reazioni tendono ad essere di una virulenza inaudita. Cosa che accade spesso anche nei confronti delle donne (vedi la crescita esponenziale dei femminicidi giornalieri in tutto il mondo) e di tutti quei soggetti che in tempi relativamente recenti hanno conquistato diritti e personalità giuridica. Su tutto ciò aleggia la perdita della verginità del territorio nazionale profanato dalla tragedia dell’11 settembre che ha aperto gli occhi agli americani sulle guerre e le tragedie nel resto del mondo. Ma li ha anche fatti sentire per la prima volta vulnerabili e preda di possibili attacchi.
In un lungo e bell’editoriale del 28 luglio sul New York Times intitolato The Democrats Win the Summer David Brooks, che certo non si può definire un progressista, si mostra molto allarmato. Ci ricorda cosa incarna Trump e, in un attacco molto veemente, descrive cosa si è lasciato indietro: «Trump ha abbandonato l’ispirazione giudeo-cristiana che ha rappresentato i più alti ideali morali dell’America verso l’amore, la carità, l’umiltà, il bene, la fede, la temperanza, la gentilezza» e più avanti «ha abbandonato quel codice di modestia di base che ha sempre nobilitato la classe media americana: non ti vantare, non lasciare che la tua vita venga definita dai lussi dorati di cui ti circondi», «ha inoltre abbandonato quell’idea dell’autogoverno popolare spina dorsale della democrazia e quell’idea di ottimismo che ha sempre energizzato la nazione americana». Lasciandosi indietro tutte queste cose, dunque, Trump si è lasciato indietro una grossa fetta della storia del paese, quella più nobile che ne ha decretato il successo e l’ammirazione nel mondo.
Brooks ha scritto che tutti gli speakers democratici hanno, con i loro discorsi, mostrato la distanza che c’è tra Trump e le tradizioni americane; l’hanno separato perfino da repubblicani come Reagan , McCain o Romney. E, se è pur vero che è sotto un’amministrazione democratica che si registrano un caos mondiale, una violenza e una rabbia crescente internamente, è anche vero che i democratici sembrano essersi resi conto di quello che sta succedendo e avere ritrovato un’unità che permette loro di avere una presenza politica ragionevole ed effettiva. Brooks è infuriato contro i repubblicani che hanno lasciato che un personaggio come Trump riuscisse a conquistare il vertice del partito, un personaggio che egli stesso definisce «malato di mente, affetto da disturbi di personalità multiple e che ha rubato l’eredità del partito».
Tuttavia alla fine Brooks paventa, e la cosa è molto inquietante, che questa enorme distanza tra i due partiti non faccia poi una grande differenza a vantaggio del Partito democratico che certo ha chiaramente dominato il gioco. Perché il gioco è cambiato e non si sta giocando più con le stesse regole di prima.
Entrambe le Convention – continua Brooks – hanno mostrato numerosi genitori che sono venuti a parlare dei figli morti. «La paura di morti violente è uno spettro presente nella mente di ognuno; che essa avvenga per mano dell’ISIS, dei poliziotti o di sociopatici solitari ha un’importanza relativa. Quello che conta è che Il contratto essenziale della società – che se tu ti comporti in modo responsabile le cose si aggiustano – per molta gente non funziona più. Potrebbe accadere che in questo momento di paura, di cinismo, di ansia generale e di estremo pessimismo molti elettori decidano che il civismo è una resa a un sistema compromesso, che l’ottimismo è l’oppio degli idioti e che l’umiltà e la gentilezza sono semplicemente un arrendersi ai macellai dell’ISIS. Se questo è il caso allora i tormenti di una nuova nascita sono lasciati a noi e Trump appare come l’uomo del futuro. Se questo è il caso però non è solo la politica che è cambiata, ma tutto il paese».
Dunque Trump che è uomo di successo in barba a tutte le sue bancarotte, alle convenzioni e ai contratti sociali di ieri e di oggi che ha infranto, rappresenta il nuovo, qualcosa che in futuro potrebbe determinare regole del gioco diverse. Promette di rendere l’America great again. Certo, questa sorta di riscatto attrae, perché fa intravedere il ripristino di un passato impossibile, irrealizzabile ormai in un mondo complicato come il nostro. Come se questo non costasse niente e venisse dal nulla. Dimenticando però quel passato, quelle tradizioni, quei valori morali che hanno reso grande l’America, che l’hanno vista protagonista di una rivoluzione pacifica, ma non indolore. Quegli stessi di cui parla Brooks nel suo editoriale. Senza quell’atteggiamento dell’angelo benjaminiano che marcia verso il futuro con lo sguardo rivolto al passato si va poco lontano. Senza considerare quale potrebbe essere il prezzo da pagare in termini di democrazia e di giustizia sociale si fa un salto nel buio. Questo è ciò che spaventa di Trump. Perché purtroppo quello che appare nuovo non lo è.
Ho sentito molti per strada, nei caffè, nei ristoranti accusare Hillary di rappresentare il vecchio modo di fare politica, di essere assetata di potere, di essere compromessa con le lobby di Washington, di avere messo in pericolo la sicurezza nazionale e le vite delle persone. E di non potere per questo guidare un paese che, proprio per la complessità della situazione mondiale, adesso invece, come non mai, ha bisogno di professionisti con la presenza di spirito, la calma e l’esperienza di chi sa cosa fare nei momenti di difficoltà e di emergenza. Trump con la sua arroganza, la sua impreparazione, il suo carattere vendicativo e autoritario, i suoi sbalzi di umore frequenti, non può assolvere questo compito che richiede un equilibrio e una conoscenza dei problemi che non si possono improvvisare. È vero, non è compromesso con le leve del potere. Ma basta questo per decretarlo come “il nuovo”? Basta questo a far credere alla gente che sarà possibile ritornare ai fasti di un passato guerrafondaio e violento quando è ormai chiaro che queste strategie costituiscono dei problemi e non delle soluzioni? Le sue ricette suonano vaghe e soprattutto vecchie perché basate su un decisionismo sfrenato, su un’intolleranza pericolosa, su una semplificazione inadatta alla complessità dei tempi, su un razzismo, una misoginia, e un colonialismo che hanno provocato molti dei guai in cui ci troviamo oggi. A cominciare dall’ISIS. Qualcuno mi risponde che il fatto che sia uomo di successo senza essere compromesso con la politica è l’ingrediente necessario per aiutare il paese.
Il trucco sta nel fatto che questa volta non è come le altre dove c’era l’alternanza tra due partiti alla pari, il partito democratico e quello repubblicano. Questa volta da una parte c’è un partito unito e complesso, dall’altra c’è un solo uomo che, è vero, non si è sporcato le mani con certi ingranaggi della politica ma se le è sporcate altrove, e in maniera molto pesante. E soprattutto che non esita a usare metodi autoritari e sbrigativi. La prova della pericolosità del momento la si vede dal fatto che un imprenditore del calibro di Michael Bloomberg, un ex repubblicano, ora indipendente ha sentito il bisogno di prendere posizione contro di lui. Ma forse nei prossimi mesi dovremo tutti fare la nostra parte, al di là e al di qua dell’oceano per scongiurare il pericolo dell’elezione di Trump. Perché questo non è solo un problema americano, ma di tutto il mondo.