L'elzeviro secco
Il merlo di Walser
Sessant'anni senza Robert Walser, maestro di nomadismo narrativo e divagazione letteraria: una reticenza marmorea nei confronti dell’indicibile
Robert Walser era amico della gaiezza e della tranquillità. Voleva semplicemente stare in pace con sé e con gli altri. Amava gli uccellini – i merli, in particolare – e le strade di campagna, i cardi secchi e le chiome degli alberi. Nei suoi scritti non c’è intreccio, sembra non raccontare nulla di rilevante. Eppure chiunque a lui si accosti, riconosce la perizia tecnica, la padronanza linguistica e qualcosa di più: gli vuol bene. Perché Walser era un puro di cuore. Come tutti gli esseri umani, afflitto dal desiderio e dalla sua forma oggettivante, viveva o cercava di vivere in un’intima castità spirituale. Aveva compreso che alla radice del desiderio cresce una perversione della natura che è cagione di infelicità, di irrequietezza. Soltanto ciò che è gratuito permette un intimo ritorno all’unione con il creato. Il senso delle sue lunghe, inesauste passeggiate era la pura osservazione, la piena presa d’atto di ciò che è bello perché è lì e non ha bisogno di essere toccato o modificato. Rimane, perdura. È una grande lezione, questa, per i tempi odierni.
La castità spirituale è qualcosa di molto più radicale della realtà: non ha nulla a che vedere con un’idea. È attesa dell’altro. A fini poetici, ma non solo, è fondamentale nella tematica dell’assenza. Ebbene, la castità è assenza nella presenza. L’idea è il contrario: amare un’assenza assente. La castità è amare un’assenza presente, perenne. E amarla non per il brivido, l’attrazione (cose non certo condannabili, ma nelle quali non risiede e non deve risiedere tutta la potenza di un rapporto o di un fine esistenziale), ma per il centro della sua personalità, dalla quale non si distoglie lo sguardo e la si può scorgere solo in una vista chiara. Castità, assenza, nitida presenza sono lo sfondo, l’orizzonte in cui l’altro può appare davvero visibile e donato. «Vi è amicizia pura solo quando un uomo accetta di guardare da lontano, e senza accostarsi, un essere che gli è necessario quanto il nutrimento» dice Simone Weil. Quando mai la società dell’usa-e-getta ci chiede di «guardare da lontano, e senza accostarsi»? A ben vedere, fagocitiamo oggetti inutili, per nulla necessari.
Walser si alzava esultando, quando il sole mattutino sbucava dalle persiane. Dopo una lauta colazione scriveva qualche appunto e cominciava a passeggiare. Nacque in una famiglia composta da otto fratelli. Il maggiore, Karl, era acquerellista e illustratore che raggiunse un discreto successo, del quale Robert non provò mai invidia, ma vivida ammirazione. Crebbe a Bienne, cittadina di confine, in un’area linguistica ibrida, tra il tedesco e il francese. Sin da fanciullo fu entusiasta spettatore di teatro. Prediligeva I masnadieri di Schiller, da cui trarrà notevoli spunti per i personaggi dei suoi romanzi. Tale era un po’ il metodo walseriano: fantasticare su storie conosciute, o addirittura su scene di quadri, per modificarne l’impianto fino a renderlo irriconoscibile, ricreando con la forza dell’immaginazione un tessuto narrativo consolidato.
Lavorò come praticante presso la Bernischen Kantonalbank di Bienne. Nel 1895 si trasferì a Stoccarda da Karl, per svolgere la mansione di impiegato in un ufficio della Deutsche Verlaganstalt. Tentò inoltre, senza successo, di diventare attore. Nel 1896 da Stoccarda tornò a piedi in Svizzera. Si era detto che gli piaceva parecchio passeggiare. La distanza tra Stoccarda e Berna è di 280 kilometri. Il tempo effettivo di percorrenza, con una camminata ben spedita, è di 59 ore. La ricerca storiografica ha fallito tutti i tentativi di ricostruzione dello stato oggettivo delle sue scarpe (e dei suoi piedi) dopo una simile scarpinata.
Nel 1898 l’influente critico Joseph Wildmann pubblicò alcune poesie di Walser all’interno del supplemento domenicale del Bund di Berna. A seguito di ciò, Walser fece la conoscenza di Franz Blei che lo introdusse nel circolo letterario dell’Art Nouveau, ruotante attorno alla rivista Insel, che divulgò suoi numerosi racconti. Nel 1904 la medesima casa editrice licenziò alle stampe il primo libro, I temi di Fritz Kocher, romanzo “a frammenti” (non frammentario), in cui compare l’arte del ritratto di soggetti apparentemente insignificanti, tutti permeati dalla sincrona giocondità e disperazione del proprio autore.
L’anno seguente Walser si iscrisse ad un corso per servitori: venne assunto come cameriere nel castello di Dambrau in Alta Slesia. Era sprizzante di gioia per aver realizzato quello che considerava come un sogno. Non aspettava altro che servire, servire e servire. Le lunghe ombre degli alberi, gettate sulle dune e sulle giogaie attorno al castello, ricadevano su quel lavoro modesto. Ah, l’umiltà, la mitezza, quale teoria più forte e veritiera! Lo scrittore celebrerà in tutti i testi successivi l’idea evangelica del servire, specialmente nella novella Jakob von Gunten del 1909. Il suo eroe sarà sempre un servitore, un vagabondo.
Walser è considerato un maestro di “nomadismo inappariscente”, perché tende a scomparire nel suo medesimo flusso narrativo. Nelle prose brevi seppe delineare, in un linguaggio agapico e soggettivo, la figura del giovane errante che ama camminare e guardare il mondo con stupore. Gli scritti vennero accolti positivamente da Musil, Canetti e Benjamin che, tra gli altri, dichiararono la loro ammirazione per questa prosa sonante e pudica, al contempo.
Hesse fu il primo a recensire, nell’autunno del 1917, la raccolta Vita di poeta. Nel suo articolo si leggevano le seguenti parole: «Questo Robert Walser, a cui già dobbiamo tanta bella musica da camera, suona in questo nuovo libretto in modo ancora più puro, ancora più dolce, ancora più alato che nei precedenti. Se scrittori come Walser appartenessero agli “spiriti guida”, non ci sarebbe più guerra. Se Walser avesse centomila lettori, il mondo sarebbe migliore». Se, nella corsa alle presidenziale, ci fosse Walser e non Trump, forse davvero non ci sarebbe più guerra.
Kafka riconobbe in lui un suo ideale predecessore. Sembra addirittura che leggesse ad alta voce agli amici, in particolare, il racconto Birrerie alpine, il cui titolo è tutto un programma. E che sonore risate assieme a Brod e compagnia!
Walser possedeva, infatti, uno humour sublime, che deborda nel suo autentico capolavoro, La passeggiata. Qui l’ironia è gigantesca. Si ride a crepapelle dall’inizio alla fine. «Le prolisse passeggiate mi ispirano mille pensieri fruttuosi, mentre rinchiuso in casa avvizzirei e inaridirei miseramente. L’andare a spasso non è per me solo salutare, ma anche profittevole, non è solo bello ma anche utile. Una passeggiata mi stimola professionalmente, ma al contempo mi procura anche uno svago personale; mi consola, allieta e ristora, mi dà godimento, ma ha anche il vantaggio di spronarmi a nuove creazioni, perché mi offre numerose occasioni concrete, più o meno significative, che, tornato a casa, posso elaborare con impegno». Sottile è anche breve battuta, tratta invece da Ritratti di pittori: «A Berlino mi facevo radere da un barbiere che aveva l’abitudine di dire: “Se in cielo salite, non ci trovate l’acquavite”. Era solito buttarla lì in questo modo, senza badarci, come quando si butta via la cenere, per esempio».
L’espediente retorico preferito da Walser è la divagazione che tende ad assumere un connotato esistenziale: divagare, forma letteraria del passeggiare, significa acquisire uno stato etereo contrario al possesso. Divagare è soffermarsi senza pretese, senza la nozione di torcere a sé ciò che si ha dinnanzi. E in più attesta una reticenza marmorea nei confronti dell’indicibile.
All’inizio del 1921 si trasferì a Berna per lavorare all’ufficio dei registri pubblici. Cambiò spesso abitazione conducendo una vita molto solitaria e appartata. Durante il periodo bernese, la penna di Walser divenne più radicale. In una forma sempre più condensata, scrisse i “microgrammi”, così chiamati perché componeva a matita – il cosiddetto metodo della matita – in una grafia minuscola e difficile da decifrare (il sütterlin, un gotico corsivo). Con questo stile scrisse poemi, drammi e novelle, fra cui Il brigante, nel quale campeggiano, come si è detto, personaggi schilleriani. La sua tendenza giocosa muta, qui, verso una maggiore astrazione. Molti testi di quel periodo si svolgono su livelli multipli; possono essere letti come ingenui e scherzosi feuilleton o come complesse trame piene di allusioni. Werner Morlag e Bernard Echte saranno i primi a tentare di decifrare questi scritti, pubblicando nel 1990, un’edizione in sei volumi di Aus dem Bleistiftgebiet.
All’inizio del 1929 Walser – che soffriva di crisi d’ansia e di allucinazioni – si presentò alla clinica Waldau di Berna. Nelle cartelle mediche era scritto: «Il paziente confessa di sentire voci». Scelse volontariamente di essere ricoverato. Durante la permanenza nella casa di cura, le sue condizioni mentali tornarono alla normalità, e riprese a pubblicare.
«So di essere un romanziere artigiano. Quando ho la vena giusta, taglio, cucio, plasmo, limo, picchio, martello, inchiodo e raccolgo frasi che si capiscono subito… A mio avviso le mie prose non sono altro che pezzetti di una lunga storia, realista senza azione. Un romanzo che non smetto di scrivere, che resta sempre lo stesso e che dovrebbe poter essere definito una storia dell’io abbondantemente frammentata o lacerata».
Quando nel 1933, contro la sua volontà, venne trasferito al sanatorio di Herisau nel suo cantone di origine dell’Appenzell, dove rimarrà per il resto della vita, Walser cesserà l’attività di scrittore. Nel 1936 Carl Seelig, suo ammiratore, iniziò con lui periodiche conversazioni all’aperto, che saranno poi riportate nel libro Passeggiate con Robert Walser. Seelig tentò di riaccendere in Walser – senza successo – l’interesse per la scrittura pubblicando alcuni dei suoi lavori. Dopo la morte di Karl e di Lisa, Seelig divenne il suo tutore legale. Malgrado lo scrittore non avesse mostrato più alcun segno di malattia mentale da lungo tempo, si mostrò quasi sempre irascibile, rifiutandosi di lasciare il sanatorio.
È il pomeriggio del 25 dicembre 1956. Durante una delle sue abituali e solitarie passeggiate attorno alla cittadina di Harisau, Robert Walser si accascia sulla neve per non rialzarsi mai più. Gli alberi vegliano. Gli uccellini cominciano un lungo corteo. Le scarpe sono, come al solito, sdrucite, sfilacciate. Sul viso rivolto al cielo un’espressione di giubilo.
Mi manca qualcosa quando non sento musica, e quando la sento, allora sì che mi manca veramente qualcosa.