La voce del poeta: Alessandro Fo
Disegnare figure d’angeli
Casuali incontri gentili hanno lasciato il segno nella sezione conclusiva di “Mancanze”, l’ultima raccolta del poeta lombardo che ha tradotto l’Eneide e sa coniugare Sant’Agostino con il salto in alto di Fosbury. E che ci regala un toccante inedito…
La poesia di Alessandro Fo si configura come una delle più riconoscibili del panorama nazionale, soprattutto per quella “levità”, quella svagata ironia che la contraddistingue, coniugata a una sapiente versatilità formale. L’ultima sua raccolta, pubblicata nel 2014 nella collana “bianca” di Einaudi, si intitola Mancanze (124 pagine, 11,00 euro), la cui sezione conclusivaè dedicata alle figure degli angeli. «Un giorno, in una chiesa deserta – ci racconta il poeta – entrò una giovane dai lineamenti armoniosi e modesti che assegneremmo a un angelo, e si venne a inginocchiare proprio all’altro capo del mio banco. Nei giorni seguenti mi avvenne di rivederla, e di imbattermi in altre figure gentili, dai tratti (somatici o caratteriali) molto spiccati. Gli incontri si disposero come in serie, ed entrarono in collisione con uno dei testi che più amo, la Vita nova: Dante si apparta a ricordare Beatrice, e si dispone a disegnare un angelo; viene distratto da alcuni passanti, e poi (appunta in 34, 3) “partiti costoro, ritornaimi a la mia opera, cioè del disegnare figure d’angeli”. Ora quelle persone che avevo via via incontrato richiedevano (come poi altre ancora) di essere ritratte come “figure d’angeli”».
In una poesia di Mancanze lei è riuscito sapientemente a coniugare la figura di Sant’Agostino con lo stile Fosbury del salto in alto.
La poesia cui si riferisce, al Figlio, è una delle ultime scritte per la serie di liriche tratte da singole pericopi delle tre grandi preghiere cristiane (Libro d’oro è la prima sezione di Mancanze. Le altre due sono Il tono blu: variazioni Chopin, e appunto Figure d’angeli). L’ho scritta ripensando alla casa romana in Via dell’Orsa Maggiore, dove avevo vissuto con mia moglie. Non lontano da Ostia (dove Sant’Agostino ebbe la famosa “estasi”, alla finestra con sua madre). Una storia d’amore ch’era stata felice e cercava di arricchirsi di un figlio; e che era anche percorsa da una tensione spirituale in virtù della quale si poteva “saltare” oltre i dubbi e gettarsi nel divino. Come quando da ragazzo praticavo il salto in alto, appunto “alla Fosbury”. Eppure… È il finale a dirlo, recuperando il numero biblico delle grandi quantità: «nulla è mai davvero come sembra,/ ma almeno sette volte più complesso». In una certa occasione mi furono chieste alcune immagini che illustrassero le poesie. Mi rivolsi a mia sorella, che pratica con valore l’arte del collage (www.laurafo.com), e uno di quelli che preparò illustra al Figlio (e contemporaneamente che sei nei cieli), montando, su un’immagine di quella casa, la foto “in volo” di un mio vecchio salto. (Nella foto).
Lei ha curato varie edizioni delle opere di Angelo Maria Ripellino.
Ripellino è stato un poeta, uno scrittore e un intellettuale di altissima qualità. Insegnava a Roma, dove ho studiato, ma non riuscii a conoscerlo. Compravo però i suoi libri, accantonandoli per quando avrei avuto modo di leggerli. Un pomeriggio del 1986 trovai a Trieste una copia di Lo splendido violino verde (1976), che qualcuno si era rivenduto. Un gesto del tutto insignificante, e del valore di poche lire, nella vita di quel “qualcuno”, è simmetricamente divenuto di portata immensa nella mia… Acquistai quelle poesie “estromesse”, le lessi, e m’innamorai perdutamente di quella voce, decidendo di sospendere gli studi di latinista per dedicarle un po’ di energie. Molti scritti attendevano di essere riscoperti e riproposti, e a questo ho posto mano con i miei compagni di cordata (Antonio Pane, Claudio Vela e poi Federico Lenzi). Da quando a Trieste “scoprii” Ripellino, ho cercato sempre di orientarmi sul suo modello di onestà, modestia, autenticità e passione.
Lei è un apprezzato latinista che ha al suo attivo la traduzione del Ritorno di Rutilio Namaziano e la versione integrale dell’Eneide. Quanto tempo ha dedicato a quest’ultimo lavoro e quali difficoltà ha incontrato?
Mi sono imposto una linea di fedeltà molto rigorosa, in seguito alla quale sorgono problemi di ogni genere e di ogni ambito (contenuti, ritmi, nastri fonici, stilemi, figure retoriche, costanti traduttive per parole singole o per gruppi di parole o di versi che si ripropongono, nel testo di partenza, tali e quali o con sottili variazioni). Scendere nel dettaglio prenderebbe troppo spazio (vi accenno anche solo nella prefazione all’edizione NUE Einaudi). Per affrontarli occorre un cospicuo investimento di tempo. E devo dire che, alla fine, i circa quattro anni che ho impiegato sugli oltre novemila versi dell’Eneide mi sembrano perfino un lasso relativamente breve.
Può commentare l’inedito qui presentato?
Sono versi nati dall’“accompagnamento” in occasione del permesso premio di un detenuto, un uomo che, per gli ineluttabili condizionamenti subiti, si è trovato da giovane a intraprendere una vita sbagliata, che ora paga caramente. Il suo è però uno dei rari casi in cui il carcere (che da noi ha molti aspetti disumani) non ha determinato la consueta ribellione e chiusura, ma un profondo ripensamento del percorso passato, una spinta a investire gli interminabili anni di reclusione in uno scavo interiore, che arricchisse e avviasse un riscatto. Mentre stavo già per congedare queste risposte, ho ricevuto una lettera da questo amico “ristretto”. Per farli maggiormente propri, Santi Pullarà ha voluto trasferire i miei versi – che già lo riguardavano – nel suo siciliano. Questa occasione di “impadronirsi” di un testo amato, e riviverlo per sé e per chi condivide la tua lingua, costituisce, per chi traduce, il fascino e il compenso più alto. Ma anche per chi viene tradotto, questo rinascere altrove e in altre vesti “si traduce” in un dono immenso.
Ritorni
Rientrato da cinque ore di permesso,
le prime dopo ventiquattro anni dentro,
già me lo vedo che glielo chiederanno,
Allora, dài, com’è la vita là fuori?
È vero che noi qui, dalla televisione,
la vediamo come nella caverna di Platone?
Tua moglie era più bella che ai colloqui?
Più giovane tua figlia?
E a me lo hai acceso il cero?
E tua madre…
«Figlio, più non credevo che prima di morire
ti avrei rivisto all’aperto, in libertà
anche soltanto per questa metà
di un giorno d’oro, da non dimenticare»…
…e hai visto proprio come sono fatte
(è vero, sì, posso testimoniarlo, c’ero)
le banconote dell’euro?
Caro Alessandro,
non potevo chiudere
questa giornata senza scrivere a te.
Oggi ho provato un livello di gioia
mai esperito prima. Ora, tornato
nel mio cubicolo, tutto restaurato
(l’avevo aggiustato nel caso il permesso
non fosse stato concesso:
per segnare comunque un po’ di svolta…)
ci ho riflettuto, e mi sono biasimato
perché ho avvertito come un’impressione
di tornare un po’ a casa…
Succede,
a chi ha finito per assuefarsi a una vita
di giorni uguali, uniformi, limitati
nello spazio come nello spirito.
Quando eravamo a tavola,
con quel panorama
sui campi e sulle torri, ho ripensato
le celle d’isolamento, e le giornate
incubato dentro gli autoblindo,
al livello estremo di sconforto.
Mia madre, mia moglie, mia figlia,
che ho abbracciato per la prima volta
lontano dai controlli dei guardiani.
E poi la passeggiata
nel Medio Evo, con le bellezze nordiche
dal viso d’angelo. E la Coop, per i biscotti
da riportare dentro ai compagni
di tanti anni chiusi condivisi.
Cosa sperare di meglio da un break
di cinque ore…
Grazie, a chi ho avuto vicino in questo giorno
del mio ritorno
alla vita.
Alessandro Fo
***
Ritorni
Trasuto da cinq’uri di pirmissu,
li primi dopu vintiquattr’anni dintra,
già mi lu viu ca cià addummannirannu,
Allura, com’è la vita dda fora?
È beru ca nuautri, da tilivisioni,
la videmu come la rutta di Platuni?
Tò mugghieri era cchiù bedda ri culluqui?
Cchiù picciotta tò figghia?
E a mia lu ciru l’addumasti?
E to matri…
«Figghiu cchiù nun criria ch’avanti a moriri
t’avissi visto fora, ’n libirtà
puru sulu pe’ sta metà
d’un jorno d’oro da nu’ scurdari»…
…e i vristi propriu comu su fatti
(è beru, posso dirlu, c’eru)
i picciuli di l’euro?
Caru Lisciandru,
nun putia chiujri
’sta jurnata senza scriviri a tia.
Oggi pruvai un liveddu di joia
mai assiruto prima. Ora, turnato
nu mé pirtusu, tutto rifattu
(l’avia risittatu ’n casu lu pirmissu
’un fussi statu cuncirutu:
pe’signari, pittantu, ’n’anticchia
’i canciamentu…)
ci arripinsai, e mi biasimai
comu s’avissi abbirtuto ’na ’mpressioni
di turnari a casa…
Succedi,
a cui finiu pe’ abituarisi a ’na vita
di jorna fatti uguali, limitati
’n to spazio comu nall’alma.
Quann’eramu assittati a tavula,
cu dda viruta
su li terri e li turra, rammentai
li celli d’isolamentu, li jurnati
fuddatu rintra i furguna brindati,
e lu supremu scunforto.
Me matri, me mugghieri, me figghia,
c’abbrazzai pa prima vota
fora l’occhi di li guardie.
E poi la passiata,
’n tà lu Mediu Evu, e li biddizzi nordichi
cu li facci d’angilu. E la Coop pe’ i viscotta
da purtari rintra ai picciotti
chiusi ’i tanti anni comu a mia.
’Nzoccu vuliri cchiossai
di cinqu uri di ruttura…
Razie, a cu ma statu vicinu na ’stu jorno
du me ritorno
a la vita.
(Traduzione siciliana di Santi Pullarà)