L'elzeviro secco
Il sangue e gli ulivi
La tragedia ferroviaria pugliese, al di là dello sconcerto per un Sud abbandonato alla propria arretratezza, impone di soffermarsi sul senso profondo di una natura ferita
La tragedia confluita tra Corato e Andria, due treni che si scontrano a cento chilometri orari e si accartocciano lungo un unico binario, reca in sé un simbolo che è la vera narrazione di quanto accaduto: gli ulivi. La poesia – anche quella che appartiene al tempo e ai fatti, non solo quella legata alle cose scritte – ha sempre la forza retorica di concentrare, e forse benignamente concedere, in una sola parola il significato intero di un’esperienza: gli ulivi. La ferrovia che taglia in due una macchia di ulivi, i treni che tagliano in due la vita di studenti e pendolari, ma di più: gli ulivi muti, impassibili, biologicamente irreprensibili, che osservano e restano lì in ascolto e tagliano, con l’espressione di univoca dolcezza dei loro rami, perenne e savia attesa vegetale, l’esistenza di chi rimane.
Gli ulivi sono la vita etica della natura, l’energia ferma e concentrata, l’eterna veglia delle stagioni. Gli ulivi sono ciò che sosta nella tragedia, la bellezza salvifica a seguito dell’orrore.
Gli ulivi, talvolta, parlano: «Aspettate a fare valutazioni – sembrano asserire con irosa maestria, quasi frenando con le loro chiome scorciate l’agitazione della folla – piangete, d’accordo, ma con dignità, non date giudizi affrettati, non addossate colpe, non uscite dal decoro del silenzio. Abbiate quel contegno che assomiglia con tanta solerzia alla solennità. Siate saggi, come lo siamo noi. Non abbandonate il luogo e la memoria, dopo un saluto sbrigativo, per tornare alle vostre miserie. Rimanete, restate, sorvegliate anche solo col pensiero. Ma che tutto scorra con mitezza e spirito di unione, senza strepiti né manifestazioni di rivalsa o, peggio, di accentramento!»
«Lasciate che la partecipazione prenda il posto della dimostrazione. Sì, oggi è dolore, domani sarà diverso: vedete come noi restiamo saldi nella fede del giorno, alla tiepida luce della fiducia. Siamo i medesimi nel sole e nella pioggia, nella sofferenza e nella letizia, non ci spostiamo di un millimetro. Siamo le piante fisse nell’identica credenza. Può capitare che il tifone, con crudele vigore, ci pieghi i rami, ma puntualmente ritorniamo più gagliardi di prima. Non ci abbattiamo alle prime aridità, non ci insuperbiamo del tempo rigoglioso. Quando gocce di sangue, come adesso, intingono di rosso il nostro verde non ci scostiamo, né ci ritraiamo: accogliamo, generosi, il diverso colore come fosse parte della nostra pigmentazione».
«E voi, forti di eguale docilità, provate a tener fermo nella mente ciò che è accaduto. È un’infinita ripetizione che noi abbiamo sempre in noi, nel baccello del fiore screziato di cremisi. Sappiate commuovervi con giustezza, non siate uomini dai facili cambiamenti, dai repentini stati d’animo. Non vestitevi dell’altrui sconcerto per inghirlandare l’aspetto. La commozione è un processo lungo e tortuoso, che non scoppia nel pianto disperato per mutare subito in un sorriso leggero. La commozione non esagera nel portamento, e tuttavia non è una passione mediana o passeggera. È integra, presente a se stessa. La commozione scende, come la poesia, al fondo delle cose, si inchina di fronte alla consapevolezza di non sapere, né poter spiegare o risolvere ciò di cui non si può conoscere l’origine, lo scacco e la tensione. Ma voi non preoccupatevi di scoprire i disegni che vi sono stati nascosti, per poter concludere le fredde operazioni dell’intelletto. Di una madre e una figlia che si abbracciano prima di morire, non chiedetevi se l’abbraccio sia avvenuto con poco anticipo, quasi fosse una firma della morte, o come ricaduta dopo lo schianto, se la madre abbia tentato di salvare la figlia o se la figlia si sia nascosta fra le braccia della madre. Non indugiate in oziose fantasticherie per indagare, analizzare, al fine di rabberciare una storia. Abbiate la misura e il pudore del cordoglio. Sappiate guardare al puro, nudo abbraccio quasi fosse il senso medesimo che si erge ritto nell’aria, la traccia infinita di sé, e non rimandasse a qualcos’altro da scovare. E se il fidanzato aspetta la sua ragazza all’angolo della stazione, non credete, no, che un giorno ella non scenderà dal treno proprio come avrebbe dovuto. Come avrebbe potuto».
«Siate chiari, simili al tufo calcareo della cattedrale di Trani, che al tramonto sa arrossarsi per incantare. Limpidi come il turchese del mare ai Cento gradini, la cui profondità ricorda il manto della Madonna del riposo. Nulla inquieta di ciò che muore, se l’onda torna a infrangere la riva».
«Sappiate vivere dentro alle trasparenze accese anche oggi che la Puglia, vostra culla, è ferita. Puglia, ferita. Puglia. Ferita».