Cartolina da Lisbona
Epopea portoghese
La vittoria del Portogallo agli Europei, proprio perché inaspettata, si presta ad essere letta anche come la "riscossa" dell'Europa del Sud, povera e creativa, contro quella della burocrazia e delle banche
Non ci capisco un acca di calcio, e non avrei nemmeno visto la finale se non avesse giocato il Portogallo. Questo paese è infatti un po’ la mia seconda casa, e così molti fili d’amore mi legano ormai ad esso. Per questo, dopo la grande vittoria, permettetemi gridare a squarciagola: «Viva Portugal!». E permettetemi anche di fare un po’ di epos nazionale. Becero, arbitrario e fuori luogo quanto si vuole, ma comunque almeno oggi legittimo. Permettetemi di farlo solo oggi, il giorno dopo la vittoria. Prometto che non lo farò più. Dunque, signori, giù il cappello davanti all’onore e alla gloria di Portogallo. E tutti in ginocchio!
A parte l’inno nazionale («Às armas, às armas. Sobre a terra e sobre o mar!»), troppo marziale e fiero come tutti gli inni, quello di «Viva Portugal!» è un grido ben diverso. Lo è perché nobile ed antico in quanto popolare. Esso, infatti, è sempre fuoriuscito non tanto dalle canne dei fucili e dei cannoni, ma invece molto più dal profondo dei cuori. Da un luogo di passione ed amorosa gratitudine. Esso proruppe nelle gole dei meticci nel nord est del Brasile che diedero la loro vita alla così remota patria ultramarina, resistendo all’invasione olandese per poi sbaragliarla. Fu gridato a Buçaco quando le truppe portoghesi sbarrarono finalmente la strada allo strapotente ritorno trionfale di Junot. E infine aleggiò anche sopra i garofani della rivoluzione di Aprile.
Più che un violento grido di guerra, esso è dunque sempre stato un grido d’amore, di riscossa dall’umiliazione e di ritrovamento di orgoglio. L’orgoglio di un popolo che non è certo mai stato privo di motivo. A parte le Descobertas, già gli antichi Lusitani furono il nerbo dell’esercito a lungo vittorioso di Annibale. E l’eroe popolare Viriato fece passare a Roma davvero un vero pessimo quarto d’ora durato 18 anni.
Ma chi sono ora i portoghesi che gridano il loro orgoglio a fronte delle strapotenti ed arroganti armate calcistiche francesi? Che come Junot erano scese in campo per vincere senza fallo. Non si può proprio evitare di dirlo: siamo tutti noi sud-europei! Come poteva allora non essere irresistibile il moto di solidarietà che, tra le squadre in campo, faceva ad alcuni di noi scegliere per quale delle due tifare? Io personalmente non ho avuto esitazioni. Da un lato l’alterigia irruente ed imperialista degli Bleus, e dall’altro lato la decisione lusa a vendere cara la pelle, a non piegarsi, a resistere, per poi andare alla riscossa. Nonostante la propria inferiorità.
Era un sogno, e tale è stato fino alla fine. Fino a quel gol di Éder (Edersito). Gol che, più ancora che dal suo piede, usciva dal profondo dell’anima di chi tifava per il Portogallo pur non essendo portoghese.
Era un sogno, e la sua forza indomabile si mostrava già quando Cristiano Ronaldo cadeva per non alzarsi più. Forse questo è stato solo il frutto di una crudele combinazione del caso, Ma comunque, anche se prodotto della porca volontà del destino, e non di quelle di Payet e Dechamps, l’atto sembrava troppo sleale, animale, sporco e spregevole per non dover essere punito da un contro-destino ben più puro e giusto. Inevitabile arrivare a pensare ad una sorta di divina Nemesis, ma in realtà si trattava solo del più puro e pulito spirito della vittoria. Quello che a volte si insinua nelle pieghe sudice delle leggi ferree e crudeli del mondo per mettere le cose come esse devono stare. Inevitabile correre con il pensiero al divino «dover essere» platonico. E mi si perdoni di nuovo l’iperbole retorica.
È stato questo alito purissimo e leggerissimo ciò che ha soffiato sulle teste e sulle gambe dei giocatori portoghesi per tutto il tempo. Mentre resistevano ostinati ed eroici alla strapotenza arrogante dei francesi, non mancando però di far loro assaggiare di tanto in tanto l’aculeo della forza indomabile.
Finché non è giunto il gol. Liberatorio come tutti i gol, ma questa volta molto di più. Perché tanto improbabile esso era stato, quanto era stato desiderato con tutte le proprie forze da tutti coloro che erano intanto entrati nel ritmo pulsante di sangue delle vene luse. I tifosi sugli spalti gridavano la loro gioia liberatoria ed il loro orgoglio di razza ormai non più irretito da alcun umiliante destino. Ma dall’altro lato, stretti con loro, c’eravamo noi, i non-portoghesi, gli europei del sud. Tutti coloro che, volenti o nolenti e più o meno consapevoli, dovevano avvertire in questa partita molto più che un evento calcistico. Il gol ha tolto gli argini a tutti questo, liberandolo e facendolo esplodere e tracimare.
Ora fuori la Francia e fuori anche la Germania! Anni, anni e anni di umiliazioni e malversazioni in un’Europa nord-europea che ha voluto essere solo una gabbia d’acciaio burocratica delle peggiori. Anni, anni ed anni di cedimenti e rinunce di tanti alla propria identità di storia, di terra e di popolo. Anni, anni ed anni, soprattutto, di rinuncia al vero e più puro ideale europeo. Quello politico, disinteressato, nobile. Non quello gretto, micragnoso, stupidamente inflessibile, calvinista e feroce, che ci è stato imposto dalle burocrazie sotto forma di banche.
È la vittoria, finalmente, contro tutto questo, la vittoria che fa gridare dal balcone con quanto fiato si ha in gola: «Viva Portugal e onore e gloria al grande popolo luso!». È un grido di liberazione, un grido di abbraccio gioioso e di affratellamento pieno di gratitudine e speranza. Il Portogallo ci ha finalmente tolto lo scuorno dalla faccia. Il Portogallo ci ha vendicati e riscattato. Ha lavato il nostro onore. Ha vendicato e riscattato tutta la povera gente che in Grecia è morta di fame e si è buttata dalla finestra. In nome degli sporchi soldi, della micragna tedesca e delle scartoffie puzzolenti di Bruxelles, ed in nome dell’egoismo degli altri europei che giravano la faccia dall’altra parte. Il Portogallo della nobiltà eroica ci ha fatto ritrovare la nostra dignità da tempo perduta. Il Portogallo della nobiltà eroica ci ha fatto ritrovare il vero senso della parola «Europa».
Non a caso il professore lisboeta al quale ieri scrivevo il mio entusiastico «Viva Portugal!», mi rispondeva: «Viva Italia! Viva Espanha! Viva Grecia! Viva Portugal!». È nobile e valoroso il Portogallo! Come era sempre stato, anche se sotto le vergogne che tutti noi popoli del Sudeuropa in fondo condividiamo: – l’infingardaggine levantina, le varie «caixas dois» (per truccare i guadagni), la proterva corruzione individualista e senza scrupoli. Il Portogallo nobile e glorioso ci fa guardare in faccia a noi stessi, alla nostra vera identità, alla vera fonte e natura del nostro orgoglio di eredi della grande civiltà greco-romana ed ispanico-atlantica. È una nobiltà, questa, che ora è lì a nostra disposizione. Spuntata di nuovo del tutto inattesa, per miracolo e per caso in una stupida sera di luglio. Spuntata come un leggiadro e delicato fiore, dopo una stupida partita di calcio e dopo uno stupidissimo gol. Non possiamo non impossessarcene.
E perciò gridiamo «Viva Portugal!» con quanto fiato abbiamo in gola.