A metà strada tra Roma e Napoli
Elogio del Gaetano
...nel senso del cittadino di Gaeta: un enclave che mescola storia illustre a speculazione (non solo edilizia) Anni Settanta. Davvero un prototipo dell'identità italiana
La Marina di Serapo, a Gaeta, in questa stagione ancora così tranquilla, si presenta come una compatta teoria di edifici a due e tre piani, frutto dell’esplosione edilizia degli anni ’60 e ’70. Alcuni di questi edifici cercano di sfuggire all’anonimato presentando una facciata ruotata di quasi 90 gradi rispetto all’asse stradale, balconate aggettanti o decorazioni in mattonelle. Ma l’architettura latita ed è meglio, molto meglio, quando lo sguardo viene distratto da altro, tipo le rigogliose antiche bouganville che a volte celano tutto questo cemento.
Sull’altro lato della strada si alternano i lidi, coi loro parcheggi coperti da pagliarelle, le bandiere sventolanti, i nomi – anche questi, per fortuna – anni ’70: Mirasole, Sirio, Selene, La Perla… Il mare è quasi completamente nascosto alla vista tranne nei brevi tratti di spiaggia libera e la sabbia è chiara, fina, invogliante.
Nel silenzio delle prime ore di un mattino di giugno – poco viavai, niente traffico – gli unici a far rumore sono gli operai al lavoro per la sistemazione della pavimentazione e delle fioriere nel primo tratto del lungomare, quello chiuso dal promontorio del Parco Regionale della Riviera di Ulisse. A breve ci verranno le palme, forse le panchine, e sicuramente qualche bancarella di artigianato global a interrompere l’ordinata desolazione dell’inizio di stagione.
Più avanti, lasciandosi alle spalle il mare e a destra la passeggiata che sale al promontorio della Montagna Spaccata, si entra nel vivo della città. C’è l’edificio in pietra rossa del Comune col campanile che svetta alto e fa da punto di riferimento, ci sono i giardinetti, un parcheggio parzialmente ombreggiato, le auto, i semafori, le strisce blu già tutte occupate, e naturalmente bar, negozi e ristoranti. Con calma, si stanno preparando alla bella stagione. Alla “Triestina”, per esempio, che è un bar famoso in un posto nevralgico, hanno sul banco un grande vassoio con bicchieri colmi di creme, marmellate e macedonie, e riempiono i cornetti al momento, secondo il gusto del cliente. Però la porta del bagno è chiusa, così capita che si resti un bel po’ fuori ad aspettare che il servizio si liberi prima di capire che bisogna rivolgersi alle bariste che la aprono con un clic, elettricamente.
Via Indipendenza, o la Casbah come qualcuno la chiama, è una strada stretta e lunga che corre più o meno parallela al Lungomare Caboto. È piena di negozi e di viavai, ma non risuona di auto, solo di voci dei primi villeggianti (di accento romano e napoletano) e della musica che esce sommessa da qualche locale. Le facciate dei palazzetti del secolo scorso sono rosa, gialle oppure hanno l’intonaco scrostato, e sono talmente ravvicinate che i piccoli archetti aerei più che unirle le tengono distanziate, come per evitare che si inclinino l’una verso l’altra. Via Indipendenza è punteggiata di piccoli negozi di souvenir, di abbigliamento e calzature, ma anche di pizzetterie dove vendono la famosa tiella, di salumerie e di improvvisati banchetti di frutta. A destra e sinistra è tagliata da decine di vicoli (nominati con I, II ecc.) ancora più stretti, a volte a fondo cieco. Edicole votive, panni stesi, vasi di piante; biciclette vecchie, scale esterne, finestre abbellite di fiori, scurissimi tronchi sottili che nascono in un buco di calce bianca e salgono al primo piano per diventare una vite rigogliosa. È l’architettura spontanea dei luoghi di mare e su di essa vivono le molte agenzie immobiliari. C’è un vivace mercato di case in vendita, ma anche decine di cartelli, spesso fatti a mano, con la scritta FITTASI e sotto l’aggiunta anche a settimane.
Man mano che si avanza e la numerazione cresce fin quasi ad arrivare a 600, si incontra qualche slargo, un’improvvisa scala incoronata dalla facciata di una chiesa, meno turisti e più residenti. Ci sono anziani, soprattutto, coi passi lenti e prudenti, in giro per la spesa o per lavoro, che si salutano con poche parole e sguardi stanchi. E poi angoli di plastica bellezza con lampioni, ringhiere e volumi aggettanti, eleganti portali di pietra bianca sormontati da un cuneo tagliato a forma di pentagono, fontane secche, intonaci splendenti di fresca tinteggiatura e case diroccate, con ciuffi di vegetazione spontanea nelle crepe dei muri, sui tetti e sugli stretti balconi. Un’alternanza di vecchio e di nuovo, di ordinato e di causale, che si riflette nelle insegne e nelle facce della gente, e che odora di popolare.
Il borgo medievale, invece, formatosi sulla punta della penisoletta che chiude il golfo, ha un profilo nobile, sottolineato dalle targhe di marmo, dalle chiese antiche, dai portici, dalle facciate dei palazzi valorizzate dallo spazio e dalla prospettiva. Il Duomo dedicato a sant’Erasmo, patrono dei naviganti, il complesso della santissima Annunziata dove Pio IX concepì il dogma dell’Immacolata, la chiesa elevatissima di san Francesco finalmente restaurata… qui tutto parla della storia antica della città, e degli illustri ospiti che vi sono passati, i Borbone e i Savoia su tutti. E qui continuano a venire i turisti, individuali e in gruppo, anche stranieri, qui il 2 giugno si festeggiano i Santi patroni Erasmo e Marciano con manifestazioni, spettacoli e fuochi d’artificio, e per l’occasione tutte le case appendono ai balconi un elegante stendardo rosso con la scritta dorata inneggiante ai patroni.
Ma è nel budello di Via Indipendenza, dove la vita era fitta e ravvicinata, che gli occhi del camminatore percepiscono il senso del luogo, il senso – più avvertito nei piccoli centri – che hanno le persone di appartenere alla stessa comunità e di portare tutti lo stesso nome, in questo caso Gaetani.
Lo spiega bene un anziano, di nome Vincenzo, che ha voglia di parlare e di elogiare Gaeta, «che ha avuto storia, indipendenza e tradizione marinara». Quando gli chiediamo se si sente più orientato alla Capitale o a Napoli, risponde senza esitare «Io mi sento e sono Gaetano», e accompagna la frase con un gesto della mano che cala dall’alto in basso, e che non ammette repliche. Poi fa una pausa e onestamente aggiunge: «Solo mio padre era di Sessa Aurunca».