Cartolina dall'America
Negli occhi di Ali
Da Malcolm X a Martin Luther King, dal Vietnam all'Afghanistan, dal Sud Africa all'Iraq: ripercorriamo il gran tour politico di Muhammad Ali, l'angelo degli ultimi
Non sono mai stata una fan del pugilato: troppo violento, troppo brutale, troppo maschile. Insomma c’era troppo testosterone. Con un’unica eccezione: Muhammad Ali. Quando ero una teenager mi sentivo un po’ un’outsider. Infatti, ero una delle pochissime di sesso femminile che, oltre ad andare a vedere e ad amare i film che allora si chiamavano spaghetti western (c’erano infatti due miti del cinema, Clint Eastwood e Gian Maria Volonté), guardavo gli incontri di boxe con Muhammad Ali. Del quale, come anche degli altri due, ero “innamorata persa”. Ma c’era qualcosa di altro e di più. Ali incarnava, infatti – oltre alle forme scultoree di un dio greco – un simbolo che in quegli anni riempiva gli occhi e l’anima di una generazione, di speranze. In un mondo migliore, più giusto. Un mondo in cui la lotta per l’affermazione dei diritti dei neri si stava faticosamente affermando e costruendo a prezzi altissimi. Anche in America dove si pensava non sarebbe potuto accadere.
Proprio perché, come scrive su Succedeoggi Gianni Cerasuolo nel suo articolo appassionato (clicca qui per leggerlo), Ali era «un meta-atleta» per cui la «boxe era solo un mezzo per farsi conoscere al mondo». Anche se nel suo sport fu un campione ineguagliabile. Per me ricordarlo è solo una dimostrazione di affetto verso chi, come lui, si è battuto per la sua gente e per i diritti di un gruppo etnico che ancora oggi in America e nel mondo subisce angherie e discriminazioni. Un personaggio carismatico che ho profondamente amato per il suo coraggio e per la sua generosità. Un esempio.
Così, quando ho sentito della notizia della sua morte, a soli 74 anni, confesso che ho pianto. Anche se sapevo che ormai da tempo era malato di quel Parkinson che spietatamente si impadronisce delle sue vittime e le spolpa vive. L’ho ricordato danzare sul ring, sputare veleno sui suoi avversari e improperi su quell’America bianca che lo disprezzava per non essere andato a combattere in Vietnam. E che in fondo lo condannava perché non era un nero mite, ossequioso, sottomesso, docile. Era un ribelle. Arrabbiato, bello, forte, spavaldo. Vinceva danzando sul ring che, dal momento in cui vi saliva, era suo. Poi l’ho rivisto come ultimo tedoforo per i giochi olimpici ad Atlanta nel 1996 esitante, tremante, incerto a causa di quella malattia che ti mangia il corpo e la mente. E che l’aveva devastato. Ma di cui non si lamentava pur sapendo che la causa erano stati proprio i troppi pugni che negli anni passati aveva incassato. «In cambio di quello che sono riuscito a ottenere nella vita, vale la pena soffrire quello che sto soffrendo – disse nel 1984 –. Un uomo che non ha abbastanza coraggio da rischiare non riuscirà mai a ottenere niente nella vita».
Don King, che promosse alcuni dei suoi incontri più importanti, ha detto «Oggi è un giorno triste. Amavo Muhammad Ali: era mio amico. Ali non morirà mai. Come Martin Luther King il suo spirito vivrà nei secoli perché lui è stato un uomo che nel mondo ha lottato per l’umanità». E Greg Fischer, il sindaco della città di Louisville in Kentucky dove era nato Ali e dove si terranno i funerali ha rinforzato proprio questo concetto: «I valori del lavoro duro, delle convinzioni, della solidarietà che Muhammad Ali ha incarnato mentre cresceva a Louisville lo hanno aiutato a divenire un’icona globale. Come pugile è stato il più grande sebbene le sue più grandi vittorie siano avvenute fuori del ring».
Muhammad Ali fu inizialmente più vicino a Malcom X (a cui si accostò in occasione della sua conversione all’Islam e da cui si allontanò dopo il suo litigio con Elijah Mohammad) che a Martin Luther King. A quest’ultimo invece si accostò dopo il 1967 quando il reverendo condannò il presidente Johnson per l’escalation della guerra in Vietnam e da cui fu citato a proposito del sistema di oppressione che gravava sui poveri e sulla gente di colore. Da allora, divenne un simbolo dei diritti civili nel mondo viaggiando ovunque dall’Afghanistan al Nord Corea, portando medicine a Cuba durante l’embargo e recandosi anche in Iraq durante la prima guerra del Golfo dove riuscì, dopo essersi incontrato con Saddam Hussein, a far liberare 15 ostaggi americani. Così uno di essi lo descrive: «Ho sempre saputo che Muhammad Ali era un super campione, ma durante quelle ore in cui eravamo insieme dentro quel corpo enorme ho visto un angelo».
Andò anche in Sud Africa per incontrare Nelson Mandela dopo il suo rilascio dalla prigionia: un incontro che rese il futuro presidente teso. «Quando incontrai Ali per la prima volta, nel 1990, ero molto preoccupato. Avrei voluto dirgli così tante cose – disse Mandela in un’intervista –. Lui era stato ed era un’ispirazione per me anche in prigione, perché pensavo al suo coraggio e al suo impegno nello sport. Fui sopraffatto dalla sua gentilezza e dai suoi occhi espressivi». Da cui trasparivano una grande fierezza, ma anche una grande umanità e una dolcezza infinita. Forse è per questo che i suoi incontri di boxe mi piacevano.