Paolo Bonari
I vizi (e i pregi) della nuova scrittura

L’invettiva narrativa

“Works”, il nuovo, fluviale libro di Vitaliano Trevisan non è un romanzo ma una lunga memoria costruita sull'accumulo della propria vita. Dal lavoro alla scrittura. E ritorno

Qualcosa tiene lontano Vitaliano Trevisan dal romanzo che si rispetti, o rispetti le sue proprie strutture, e che faccia i conti, in maniera adulta, con la sua ragione d’essere: il tempo, il tempo che passa, come le pagine che si rincorrono; quel qualcosa è una sfiducia, come sembra probabile, quasi una rassegnazione, o la consapevolezza acquisita che si debba spostare la mira, per centrare il bersaglio della letteratura, oggi? Insomma, Works (Einaudi, pp.664, 22 Euro) è l’ennesima testimonianza dell’essere Trevisan uno scrittore, e non un romanziere. Nel frattempo, sono andate a depositarsi nel nostro panorama letterario certe opere che sembrano aspirare all’immortalità, in virtù della loro imponenza: capolavori d’obbligo, come se il tempo dedicato alla loro stesura fosse una garanzia della loro tenuta, come La scuola cattolica di Edoardo Albinati, cioè un libro che non può che essere, secondo Francesco Piccolo, “importante”, come Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Giordano Meacci, o Le cose semplici di Luca Doninelli, nonché il “definitivo” Gli increati di Antonio Moresco, per rifarci anche a due romanzi dell’anno scorso. Quelli di Albinati e di Trevisan, invece, romanzi veri e propri non sono, il primo dando libero sfogo alle tentazioni saggistiche, il secondo appartenendo alla cosiddetta memorialistica. Dopo tali sforzi, in ogni caso, è difficile che il critico di turno si permetta di liquidare l’opera, e questo è già un primo e notevole risultato, per un autore.

Trevisan cammina, come l’io de I quindicimila passi, mette un piede davanti all’altro, e fa 650 pagine (la metà esatta di quelle del volume di Albinati, ma il prezzo è lo stesso), fa Works, un capitolo dopo l’altro, in una rassegna delle fatiche, di tutti i lavori da lui intrapresi e abbandonati, fino al 2002, anno in cui la pubblicazione einaudiana gli fece brillare l’ipotesi della fine di quella vita e l’inizio della carriera di scrittore – non sappiamo come andò a finire, se Trevisan sia riuscito ad affrancarsi dal bisogno, ma è probabile di no: quanti riescono a trarre dalla scrittura il proprio sostentamento? Trevisan, poi, pubblicava poco, e pochissimo, ultimamente: quattro anni e mezzo di lavorazione fanno della redazione di questo memoir l’attività più impegnativa della sua vita, e Trevisan non è uno che riesca a dedicarsi ad altro, nel frattempo, durante un impegno del genere, diversamente da Albinati, per esempio.

Non so bene, all’epoca, di che cosa fossi stufo o disgustato, ma I quindicimila passi felicemente mi sembrò meno contemporaneo di tanta altra narrativa contemporanea, più classico – certo, non avevo ancora letto manco un libro di Thomas Bernhard e, se il percorso fosse stato quello corretto, da Bernhard a Trevisan… Una volta compiuta la traversata dell’opera dello scrittore austriaco, infatti, molto è cambiato, il mio giudizio è meno sprovveduto, e non si può accusare Franco Cordelli di aver esagerato, quando recensiva Il ponte. Un crollo, allorché individuava il suo “calco da Bernhard”, che era “ben noto e francamente stucchevole”. Come superare, se necessario, tale fastidio? Altri, benché forti lettori bernhardiani, sono stati capaci di rielaborarne in chiave molto più personale l’impasto sintattico, al punto che la loro fonte risulti quasi nascosta, come nel caso di Paolo Nori, ma si può anche mettere in conto che una certa tecnica narrativa faccia parte del nostro patrimonio, che ne sia scaduto il copyright e, comunque, possiamo darci un’occhiata intorno: se tutti scrivono bene, o benissimo, ma molto similmente, uno che scriva altrimenti, che componga un periodare così avvolgente ed elastico non sarà di troppo; se chi scrive senza ricalcare va a finire che scrive come tutti gli altri, meglio rubare – certo, meglio rubare a uno come Bernhard, e non al primo fiacco avanguardista che càpita. Casomai, conservo più di un dubbio non tanto sulla punteggiatura così farraginosa, quanto sulla coerenza di certe scelte che sembra perdersi, ma può darsi che mi sbagli: non sono certo che sia stato utilizzato lo stesso metro, pagina dopo pagina, nella scelta del segno d’interpunzione adeguato, e può capitare che ci si trovi a percorrerli avanti e indietro, certi capoversi dei quali non s’intravede l’uscita, a stare in apnea, o addirittura a tralasciare ogni pausa per concentrarci sulle parole, effetto altamente nocivo per il mantice di Trevisan, che ha necessità di una ritmica che lo umanizzi.

vitaliano trevisan, worksRubare, si diceva: Trevisan, in mezzo alle sue fatiche, non manca di rammentare carriere che furono, poi, abbandonate, e che sarebbero state di certo proficue, come quelle del ladro e dello spacciatore, o quella volta in cui si mise in testa, con amici suoi, di progettare una rapina e di sistemarsi, così. Proprio dove le memorie sembrano accendersi, qualcosa non funziona: troppa letteratura o contro-letteratura maudit degli ultimi e dei reietti è passata sotto ai ponti (o sopra, sommergendoci) perché non scappi lo sbadiglio, tanto che anche le pagine de la Repubblica, ormai, nell’intervista di Maurizio Crosetti, sono lietissime di ospitare il racconto illegale e scabroso, che provoca brividi non di disgusto, ma di piacevole proibito; infine, non abbiamo archiviato anche troppe denunce dell’ideologia del Nordest, della sua “periferia diffusa”, della grettezza dei suoi abitanti? Non sono decenni che stiamo a rileggere lo stesso libro? Fino ai giorni nostri, fino al Cartongesso di Francesco Maino di due anni fa, giusto per fare un nome.

Trevisan è anarchico, ma non come gli altri, non come tutti quelli che, giorno dopo giorno, si riscoprono tali, dopo aver minuziosamente considerato agi e difetti di questo posizionamento, dopo aver magari tentato altrove (e fallito) l’esercizio spensierato del dominio, gli stessi che concludono che situarsi (o definirsi e basta) all’opposizione di un qualsiasi inoffensivo potere non fa male, oggi, ed è redditizio, socialmente parlando. Solitario per indole e per schifo delle recenti consorterie letterarie, Trevisan funziona quando smette di comporre l’elegia della propria “diversità” e la sua differenza la mette in pratica, sulla carta, senza pensarci troppo, senza farla cadere dall’alto; quando ripone i panni del superomismo anarchico, smette di fare il duro, di fare a botte e di non perdere mai, di andare a puttane, e va in cerca d’amore, come tutti, cioè diversamente da tutti, per esempio descrivendo l’ingiusto e cruento accerchiamento femminile che deve subire, preso nel gorgo delle Erinni; e funziona quando svela insopportabili istrionismi e bassezze dell’intoccabile Toni (Servillo), colui che, con una sola smorfia, entusiasma la nostrana borghesia culturale e coloro che vorrebbero tanto farne parte.

Invece, dispiace aggiungere che non c’è vigore da cavalieri della giustizia nella damnatio di Aldo Moro (nell’immediato, se n’era incaricato anche Giorgio Gaber, con Io se fossi Dio), né nella conseguente e para-brigatistica soddisfazione che si otterrebbe, insomma, dal sapere che certi potenti, da allora, avrebbero avuto finalmente paura di uscire di casa, che si sarebbero guardati le spalle: è così, difendendo pubblicamente la nobiltà etico-estetica delle rivendicazioni terroristiche, che chi scrive diede sfogo alla propria piccineria di liceale, facendo aprire e stare le bocche di quegli altri piccoli vigliacchi della mia classe, che erano un po’ meno vigliacchi di me. Quando succede, ogni volta che Trevisan si sazia delle proprie “scorrettezze”, viene voglia d’invitarlo a scrivere un romanzo, a lasciarsi perdere, lasciar perdere sé stesso per un po’.

Perché, invece, questo non è un romanzo? Che cosa gli manca? Anche: che cosa manca al romanzo contemporaneo affinché riesca a farsi carico dell’espressione di tanta realtà, invece di delegare tale compito al memoir? Ancora: servono centinaia, quando non migliaia di pagine allo scrittore che voglia lasciare un segno, preso dalla smania per il monumentale, nel tentativo di raggiungere l’auspicata categoria dell’“importanza”? Si pensi a Raffaele La Capria, al suo trittico di libri minimi ma duraturi, appena riunito in unico volume: L’estro quotidiano, L’amorosa inchiesta, A cuore aperto. Memorie, lettere, riflessioni, le sue: in quel caso, l’io dell’autore si tiene alla larga da pose estreme e stanchi estetismi, e della propria incertezza fa una forza, tanto che è quella condizione a fargli guadagnare mobilità dell’intelletto e dei sentimenti, a renderlo naturalmente sperimentale.

Questo non è un romanzo perché manca di struttura simbolica e procede per accumulazione, manca di quel qualcosa che lo tenga unito che non sia la brossura: una struttura simbolica è quel nucleo non spento che riordini a modo suo o scombini le successioni, le linee le spezzi, confonda le premesse con le conseguenze, permetta a ciò che è stato detto di essere detto così e basta, per fortuna di chi soffre, che non avrebbe potuto dirlo altrimenti; è anche la possibilità, per l’autore, di non essere abbastanza esplicito e di lasciarlo giù, il dolore, nell’anestesia dello stile. Una struttura simbolica potrebbe dare più spazio al tempo e viceversa, fare di una storia immobile l’unico punto geografico dal quale si poteva guardare tutto, quando la vita, da lì, si sarebbe potuta riaprire.

Un consiglio, finendo: vanno bene, anzi benissimo, la rabbia primordiale, non meditata, e le frequentissime bestemmie di Works, scagliate contro i padroni, il destino, e regalate ai compagni, per farli ridere e rinsaldare per blasfemia il legame sacro degli sfruttati, per non darla vinta ai superiori e rompere il silenzio dell’obbedienza. I luoghi comuni? “Prenderli a martellate, è uno dei miei compiti”: la contestazione, però, è ora di portarla dentro alla letteratura italiana, non inscenando o scimmiottando altri contro-eroi, ed esagero, lo so, ma Trevisan è uno dei pochi che può farcela, anche o proprio in virtù della vita che ha alle spalle. Come e meglio delle Lettere a nessuno di Antonio Moresco, senza quel carico di retorica auto-celebrativa e vittimismo compiaciuto, Trevisan sveli i giochi di forza, i ricatti culturali che non smettiamo di subire, non faccia il verso a sé stesso: lo so che questo è un rischio, e che Trevisan ne ha già affrontati tanti, ma si sa anche che, come sigillò un poeta, quando (e dove) cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva, il che farebbe comodo all’autore, proprio come a tutti noi.

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