Una bella mostra al Palaexpo di Roma
L’attimo fotografato
L'occhio vigile di Gianni Berengo Gardin racconta le trasformazioni di un'Italia in bianco e nero ricca soprattutto di sfumature di grigio. Dal passato al futuro, attraverso scatti di un intellettuale senza maschere
Vera fotografia. Su tutte le stampe dell’archivio che custodisce le immagini scattate in oltre sessant’anni di carriera Gianni Berengo Gardin ha voluto imprimere con un timbro questa dicitura. E a 86 anni compiuti continua farlo. Un marchio d’autenticazione che figura anche nei suoi ultimi lavori: quella inquietante sequenza di incubi in bianco e nero con cui nel 2015 ha voluto descrivere l’impatto devastante delle navi da crociera che attraversavano il Canal grande e ormeggiavano a piazza San Marco, ostruendo la vista e stravolgendo il paesaggio di Venezia. Una sfida da Don Chisciotte. Lui e la sua piccola fedele Leica in mano contro quei mostri di acciaio luccicante e occhi di vetro. Premiata stavolta da una parziale vittoria, perché quelle immagini hanno suscitato scandalo in tutto il mondo costringendo il sindaco e il governo a fare marcia indietro: studiare altri percorsi meno invasivi e altri attracchi.
Vera fotografia. La cifra di un autore che continua a difendere il mestiere che ha imparato a venti anni, e che la tecnologia rischia di stravolgere. «Perché le foto digitali – spiega – sono una truffa, ti consentono di addomesticare, taroccare la realtà, togliere dettagli, cambiare le luci, scattare a raffica e poi rimontare a capriccio ogni spezzone, usare effetti speciali. Servono se lavori per un universo posticcio e patinato come quello della moda. Servono nei selfie a dire a tutti: io c’ero, io ci sono. Come se questo importasse davvero. O servono se insegui magari ambizioni creative d’artista. Non per fare cronaca così come io, da fotografo puro, ho scelto di fare. E la cronaca è lì nell’istante irripetibile che stai bloccando in un inquadratura. Nel gesto e nel volto di un passante che stai isolando dal resto. Nello sfondo che li incornicia. Solo così, senza trucchi, la foto diventa documento. Testimonianza vera. E quei frammenti di vita reale, di piccola umanità diventano Storia, un presente già passato che si trasforma in memoria collettiva. Storia di uomini. Di popoli e non di cose. Per questo mi sono concentrato sul bianco e nero. Il colore ti distrae, inquadri una persona ma a richiamare l’attenzione è il colore della giacca che indossa non l’espressione del suo viso o il suo modo di essere con un gesto».
Fotografia vera. Scegliendo questo titolo per battezzare la mostra con cui in collaborazione con l’agenzia Contrasto il Palaexpo di Roma rende fino al 28 agosto omaggio a Gianni Berengo Gardin, le due curatrici Alessandra Mammì e Alessandra Mauro, ci hanno offerto la chiave più rispettosa e intonata per rivisitare l’opera e la personalità di questo maestro della fotografia che ha sempre respinto più per convinzione che per modestia la corona di artista che la critica internazionale gli ha giustamente assegnato. Una chiave con cui rileggere il suo modo di operare nel solco della tradizione e lo stile rigoroso e sobrio che caratterizza il suo lavoro: niente trucchi, eccessi o divagazioni barocche, ma uno sguardo che scende in profondità, elimina il superfluo. Ma anche un preciso richiamo a quell’ancoraggio al vero che delimita il suo campo privilegiato d’azione: «Ho fotografato architetture, città, paesaggi, ho visitato per lavoro fabbriche, cantieri, tanti paesi diversi ma in ogni inquadratura è l’uomo che cerco, il cuore, il motore che dà senso per me a ogni visione».
Condensa quel timbro di vera fotografia la sua vocazione politica: «Sono e resto un comunista, e non provo – a differenza di altri – alcuna vergogna a dichiararlo. Ma un comunista a mio modo, un utopista all’acqua di rosa, che non segue dottrine o testi sacri. Ci sono arrivato d’istinto, sentendo che libertà, eguaglianza o sono a portata di tutti o non sono». E riassume la sua formazione culturale: «quindici anni in quel prezioso laboratorio di intellettuali e di idee che è stata l’Olivetti. E poi un lungo curriculum di progetti per la Fiat, per l’Ansaldo, altri centri di produzione del capitalismo avanzato, dove ho imparato a conoscere più che il valore delle merci, la ragioni e la dignità del lavoro operaio».
L’impegno civile è il filo rosso che cuce insieme tutte le immagini di questa mostra suddivisa in sei densi capitoli. Il più toccante è quello che ospita un piccolo campionario dell’inchiesta fine anni Sessanta, condotta insieme a Franco Basaglia, che prese corpo in un libro «Morire di classe», manifesto della campagna che portò alla chiusura di manicomi. Gianni Berengo Gardin non urla la sua indignazione. E non concentra il suo sguardo sul mistero e l’inferno della malattia mentale nel quale la guida dello psichiatra lo sta addentrando. È la condizione umana dei ricoverati che registra con complice eppure distaccato pudore: non più uomini ,ma fantasmi, identità annullate: le camicie di forza, gli occhi persi nel vuoto, le mura in cui sono rinchiusi come barriere opprimenti e invalicabili, persa persino la voglia di ribellarsi, la diagnosi e la terapia come condanne spietate. Dentro, però, una residua scintilla di vita che ci obbliga a riconoscerli eguali a noi, nella distanza della diversità in cui li abbiamo relegati. A provarne almeno per una volta rispetto.
La partecipazione umana è la chiave con cui questo grande vecchio fotografo che ancora oggi continua a definirsi un dilettante, uno studente che non smette mai di imparare, osserva e ci racconta il mondo. La Venezia della sua gioventù, la Milano degli anni Settanta dove si è trasferito e oggi vive, i paesaggi, le città e i paesi che ha attraversato. Un viaggio attraverso un’Italia che non c’è più, gente che guarda e si guarda senza paura, si commuove, si diverte, si innamora, si batte, rivendica il diritto e il piacere di esistere, sentirsi comunità.
Impossibile sfuggire al rimpianto. Un doppio rimpianto. Per quello che abbiamo perduto e per la straordinaria capacità di testimonianza, schiettezza ed empatia forse irripetibili di un intellettuale senza maschere come Berengo Gardin ormai quasi alla fine del suo percorso.
Un groppo di malinconia che rischiava di immiserire questa mostra, indirizzarla verso un’unica scontata direzione. Per questo, giustamente, le due curatrici ne hanno arricchito la lettura con una intrigante appendice, chiamando un gruppo scelto di 24 intellettuali, da Salgado a Kounellis, da Mimmo Paladino a Renzo Piano, a scegliere e commentare le foto che più li hanno colpiti, componendo una sorta di antologia che dà corpo al catalogo pubblicato per l’occasione da Contrasto (80 pagine, 9,90 euro). Qualcuno ha collaborato con lui, ma molti non hanno mai incontrato Berengo Gardin. Ognuno cerca di incrociare il proprio sguardo con quello dell’autore che ha scattato l’immagine che sta commentando. Un approccio, a volte anche forzato, che però aggiunge una visuale trasversale illuminante. Come quello di Domenico De Masi, che prende le mosse da una foto Anni Novanta, il piazzale di una fabbrica di Bari attraversato da operai diretti al lavoro, per imbastire un desolato confronto con un’icona che gli ritorna in mente: il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Nel capolavoro inizio Novecento del pittore lombardo il popolo del lavoro marcia compatto e spavaldo rivendicando i propri diritti e la propria esistenza. In questo scatto quella forza si è disciolta in uno sciamare disperso e a testa bassa.
Gli operai non guardano più davanti, quasi avessero rinunciato al proprio futuro. Un’assenza che riguarda anche noi, il nostro presente rintanato entro cucce, gabbie di rassegnata miopia. Per non guardarci dentro, non guardiamo più neanche fuori, stiamo disimparando a farlo. E non capiamo quello che così stiamo perdendo. Sembra ricordarcelo un’altra foto, scelta e interpretata con grande acume dal giornalista Michele Smargiassi. Un affascinante ritratto di gruppo di un paese del Lazio, Oriolo Romano. Un arco d’un antico portale che chiude una larga scalinata, due usci dischiusi, sui gradini e davanti alle porte un grappolo di generazioni. Due anziane sedute sulle sedie trascinate fuoricasa, una mamma che dondola una carrozzina, due bambine addossate all’uscio, quattro adulti, alcuni in camicia, altri con la giacca della domenica. Sembra la balconata di un teatro. Nessuno è in posa, ma tutti hanno facce e occhi puntati verso l’esterno. A qualcosa che sta accadendo. Una processione, un comizio, lo struscio sul corso, chissà? Forse a qualcosa che deve ancora avvenire.