Anti-localismo e localismo
Le vite in fuga
Che cosa ci spinge a "spedire all'estero" in cerca di futuro i nostri figli? L'idea che non esistano più identità condivise? O l'idea che il domani sia globalizzato? O la certezza che il nostro sia un Paese già morto?
Ma è proprio vero – come mi diceva ieri sera, nel minuscolo e pittoresco caffè estremamente portoghese del Jardim da Estrela, un architetto lisboeta emigrato per affari a Dubai –, mi chiedo, è proprio vero che i nostri figli dovranno essere destinati a vagare per il mondo? È proprio vero, visto che il mio architetto stesso non sa decidere se questo sia fortuna (e dunque felicità) o jattura? Del resto la contraddizione nel suo discorso è evidente. Dato che da un lato egli celebra enfaticamente il Portogallo come «um país maravilhoso» (il paese nel quale vorrebbe che crescessero e vivessero i suoi figli) e dall’altro lato racconta con orgoglio di aver dissuaso il figlio (aspirante a divenire ingegnere spaziale) dal restare a Lisbona e in Portogallo. Ed intanto io stesso (e famiglia) mi aggiro da queste parti da anni. Mentre poi, nel corso dello scambio degli auguri di quest’anno, apprendo che praticamente tutti i figli di questo e di quell’amico italiano scorazzano ormai in qualche paese lontano (dall’Inghilterra al Vietnam).
Rimugino tutto questo mentre sorbisco un caffè guardando a testa bassa la tovaglia a scacchi rossi e bianchi del tavolo dove sono seduto, impegnato intanto nell’arduo compito di digerire il pranzo consumato all’Hard Rock Cafè di Restauradores (esaudendo così il sogno di mia figlia). Tutte cose abbastanza difficili: digerire un cibo indigeribile, ascoltare il pontificare ambivalente dell’architetto, reprimendo malumore e disagio, superare lo choc delle constatazioni già fatte nell’Hard Rock Cafè. Tempio scarlatto soffuso e regolarmente kitsch della cultura rock anglosassone. Con tanto di feticci (abiti paillettati a morte, chitarre personalizzate etc) incorniciati come santini in finto-noce scuro e finto-oro antico. Camerieri sopra le righe ed ultra-gentili; non si capisce se solo per cocaina oppure per l’ansia febbrile di guadagnarsi un commento positivo dal cliente (nel disperato tentativo di non perdere il posto). Insomma un atroce santuario americanoide al centro stesso di un’attempatissima Lisboa ancora persistentemente medievale. Una sorta di allucinatoria cisti immaginativo-allucinatoria aliena nella quale siano presenti in nuce tutti i germi di un prossimo inglobamento della città intera. Trasmutata così anch’essa in un feticcio senza più sangue né senso, se non quello di ingentilire, come un santino imbalsamato, le convulsioni orgiastiche dei vari tiasi dionisiaci sparati a volume stratosferico dagli schermi quale eccitante intrattenimento dei mangiatori.
Sta di fatto che però anche tutto ciò figura come urbana cultura. E non solo! Infatti, nel contesto dell’argomento specifico che sto tentando di trattare – entro il fondersi sincronico di più temi che così spesso funge da humus per una riflessione scritta –, tutto ciò figura come ciò su cui l’odierno turista, così come il comune intellettuale borghese provvisto di una dose minima di ambizione, si affacciano ipnotizzati a morte. Ciò che insomma bisogna a tutti i costi vivere entro un mondo non più ordinariamente «locale», in quanto ormai «globalizzato» e divenuto dunque straordinario.
Pertanto, ritornando alla preoccupazione espressa inizialmente, quella per il futuro dei nostri figli (ed anche dei paesi in cui siamo nati e vissuti), tutto ciò significa che siamo ormai chiamati a trasmutare disagio ed angoscia in un’esaltazione euforica. Nella quale si sia finalmente capaci di cogliere il bello, buono e giusto per eccellenza in ciò contro cui invece il nostro più profondo interiore (un tempo non solo «anima» ma anche perfino «ragione») si ribella con tutte le sue forze.
Ed ecco dunque emergere il motivo principale per cui dobbiamo assolutamente fare tutto questo, prima per noi e poi per i nostri figli (ovvero in primo luogo per non soggiornare in quella pericolosa ed imbarazzante situazione che la lingua napoletana, localista quanto mai, identifica come scuorno nfaccia). Dobbiamo farlo, amici cari, perché ciò ormai fa decisamente chic !
Non si può oggi essere un individuo degno di questo nome, ed un buon genitore, se non alle seguenti condizioni : – 1) aver viaggiato in lungo e largo ed essere fermamente intenzionati a continuare a farlo almeno fino ad 85 anni ; 2) schifare il luogo in cui si è nati e si vive, con tutto quello che gli sta intorno al modo di un «paese» ; 3) aver udito chiaramente dentro sé stessi la voce che intima di gridare ai propri figli «Esci dalla tua terra e vai!», ed averlo appunto gridato ad essi con tutto l’accorato affetto di padre e/o di madre ; 4) e se si è un intellettuale, bisogna ormai aver concepito sé stesso come non più appartenente ad alcuna terra (intellettualmente non fa chic!).
Insomma questo è tutto. Tutto ciò che è locale, e dunque piccolo, confinato e soprattutto sempre-uguale-a-se-stesso, è ormai solo indegno, riprovevole, gretto, soffocante, incolto, controproducente, perfino mortale in senso letterale e metaforico. Un solo fuggevole cenno, dunque, all’esatto contrario di tutto ciò. Che potremmo chiamare «localismo», ovvero quella visione secondo la quale invece non bisognerebbe dimenticare che forse l’unica sfera di valori che sia realisticamente perseguibile sta proprio nel locale (e quindi appunto nel geograficamente confinato, che poi è sempre il piccolo fino all’infinitesimo).
È un luogo di noiosa ripetizione, questo, e quindi anche di una fin troppo ben delineata identità, al quale quindi viene del tutto spontaneo dedicare la propria cura, come a ciò che è riconoscibilmente prossimo. Esso è senz’altro brutto anzi bruttissimo, al cospetto delle esotiche bellezze di cui invece il vasto mondo può consentirmi la stupefatta contemplazione. E tuttavia è comunque bello nell’unico modo che sia forse davvero possibile, ovvero come mio. È infatti ciò con cui io sono nato, e dunque è ciò che ha davvero senso per me in quanto bello (e viceversa). Vastissima è la gamma di pensiero che oggi si può chiamare a testimone di tale localismo, e ricca dei più disparati accenti. Ma degna comunque di essere ascoltata. Farò solo pochissimi nomi: Heidegger, Alain Finkielkraut, Thibault Isabel, T. O’Neill, J.H. Kunstler, Agostinho Da Silva (vedi l’intervista a Miguel Real).
Tutto ciò però non gode ahimé di alcun consenso di massa. Ed allora bisogna invece modellare la propria vita tutta sulla perpetua fuga. E se non fuggiamo noi, almeno debbono fuggire i nostri figli. Cioè il futuro della nostra carne e del nostro sangue. E di quelli dei nostri antenati e della nostra terra – nella quale dunque un solo incomprensibile quanto malefico caso fece sì che avemmo i natali. Cioè deve perire il futuro stesso del paese nel quale viviamo. Il quale, ovviamente, non potendo più contare sui nostri (e suoi) figli, di certo si sgonfierà assumendo l’esatto aspetto di quella famosa «tunica di pelle» (di memoria zohariana, oltre che contemplata da pensatori della tempra di Gregorio di Nissa) che il grande Michelangelo ci mostra nella Sistina. Una bazofia, direbbero i portoghesi, un’immonda larva, un ectoplasma smorto e fetido, un raccapricciante fantasma grigio-bruno.
È questo che vogliamo? Si è esattamente questo che vogliamo! La parola d’ordine era stata già abbastanza tempo fa pronunziata dal Zeitgeist che tutto domina (specie le coscienze), ed ora essa ha assunto la sua forma definitiva : – «Emigrare e fare emigrare è quanto di più chic esista!». Infatti tutto ciò che resta può essere solo infamia ed ignavia improduttiva e pertanto troppo poco felice noia, cioè riprovevolissima abitudine – in altri termini «tradizione». Dunque dobbiamo essere felicissimi se i nostri figli saliranno su quei tristi vascelli e scompariranno nelle nebbie di un tenebroso ed incognito Oceano per non tornare mai più. E noi che restiamo dobbiamo essere felicissimi se intanto intorno a noi tutto sfiorisce e muore, ormai svuotato di qualunque linfa vitale.
Amen o Requiem eterna?!