L'addio a una archistar
L’ostrica di Zaha
Inaugurata a Salerno la nuova stazione marittima, ultima opera di Zaha Hadid. Una palpebra aperta dalla grande architetto per ricollegare la città con il suo mare
«Entrando in uno spazio architettonico le persone dovrebbero provare una sensazione di armonia come se stessero in un paesaggio naturale». Si racchiude in questa frase di Zaha Hadid la sua liturgia estetico-formale, coerente e visionaria, la sua poetica di abitare il mondo, un organismo vivo, in movimento, intercettando, tra nostalgia del passato e ansia di futuro, lo spirito del presente. Armonia: è questo il sentimento che si prova lasciandosi abbracciare dalle forme sinuose della Stazione marittima di Salerno, la sua ultima creazione, l’opera molto amata che avrebbe dovuto inaugurare lo scorso 25 aprile se non fosse sopraggiunta improvvisa la morte, a soli 66 anni, per un attacco cardiaco in un ospedale di Miami dove era in cura per una polmonite.
Un’onda dalle spume biancogrigie come quelle che si infrangono sul molo salernitano, intitolato a Manfredi, il re normanno che per primo comprese la necessità di un porto nella città cosmopolita della Scuola medica: così si presenta allo sguardo il terminal sospeso tra terra e mare, in volo verso il cielo mediterraneo da cui assorbe e trasmette luce e colori. Danza ipnotico nell’aria con l’andamento fluido dei suoi volumi, sembra ignorare la forza di gravità, malgrado il corpo di calcestruzzo: un miracolo che solo l’”architetto babilonese” poteva compiere, lei che ha sempre inseguito la sfida di “trasformare tutti i vincoli possibili e immaginabili in nuove opportunità spaziali”.
«Triste ed emozionante ricordarla a pochi giorni dalla sua scomparsa davanti a questo piccolo, prezioso, bellissimo edificio che sembra plasmato dai flussi che vengono da mare e terra, pronto ad accoglierli tra i due gusci della copertura e del molo», così Stefano Boeri introduce la commemorazione alla “Dame”, l’amica carissima cui ha dedicato la monografia di Abitare “Being Zaha Hadid” a cura di Marco Sammicheli. «Costruttore di cose e di visioni – aggiunge –. Era una personalità poliedrica, straordinaria, l’unica protagonista della storia dell’architettura, dopo Le Corbusier, capace di creare un flusso di forme di tale potenza visiva da non poter essere scomposto in frammenti, essere soggetto a fraintendimenti o copie e, allo stesso tempo, da sfumare il confine tra la materia e il sogno». La leggerezza è la firma chiara dell’archistar, subito riconoscibile nell’infrastruttura salernitana, osannata dai giornali di tutto il mondo: «Un’architettura radicalmente contemporanea nel cuore del classicismo – si legge sul New York Times – un monumento da visitare come le rovine di Paestum e Pompei».
L’Ostrica – così l’aveva battezzata la stessa Zaha Hadid per quel guscio duro, quello scudo temprato a difesa dell’intenso sole del Sud – si staglia su una base scolpita come una collina-monolite su cui poggia il sistema di rampe e percorsi interni e terrazzati concepito come una promenade articolata e dinamica che guida i passeggeri nelle operazioni di imbarco-sbarco. La copertura curva, un manta gigante, si stacca dai muri, affidata al semplice sostegno di pilastrini in acciaio, disegna un orizzonte geometrico in dialogo con la linea dell’orizzonte onirico che per il poeta salernitano Alfonso Gatto era l’icona dell’eterno andare e dell’eterno ritorno. L’Itaca da cui partire con la voglia di tornare: nella notte la cupola si accende di centinaia di led specchio del firmamento, il faro che illumina i passi di nomadi in cerca di un approdo. Una scalea porta all’ingresso di questo tempio del viaggio, è l’iniziazione ad un’esperienza emozionale, unica. Il racconto architettonico, un impasto di ingredienti materici e di idee partorite nel futuro, si sviluppa per inquadrature in un intreccio di prospettive diverse, come in un film. Viene alla mente l’Odissea nello spazio di Kubrick, tra i registi prediletti dall’anglo-irachena al pari di Fellini ed Antonioni. «Non credo sia un caso che Zaha amasse tanto il cinema – ricorda Boeri – e che proprio il cinema, il flusso continuo delle percezioni, sia stato portato da lei nel cuore dell’architettura». Il riferimento è, in particolare, al Maxxi, il museo d’arte contemporanea di Roma, invenzione rivoluzionaria perché rivoluzionava l’idea stessa di museo-stanze e perché si innestava in una Roma ancorata testardamente alla cartolina dei Fori e del Barocco. Qui, la lady di ferro dalla “crudele intelligenza” – esigente, alla ricerca della perfezione, difficile smuoverla dalle sue convinzioni – con l’invenzione di quell’unico spazio enorme in cui le opere degli artisti devono giocoforza confrontarsi e interagire dal fondo in alto, da una parete all’altra, «ha realizzato, forse, l’esempio più alto della sua visione fluida della spazialità in sequenza e senza soluzione di continuità della sua architettura».
Nella Stazione marittima di Salerno, progettata negli stessi anni (era il 2000 quando il suo studio inglese vinse entrambi i concorsi di idee) c’è l’identica filosofia. La vista dalla hall, un vuoto pieno di aspettative, un virtuosismo scultoreo, è spiazzante. L’ingresso si apre tra la biglietteria e il ristorante affacciato sul golfo, poi lo sguardo vola su ed è tutto un gioco di labirinti costellati da vetro, acciaio e legno, di ambienti solidi e liquidi, una giostra nel cyberspazio di curve e vertigini, una dimensione resa ancora più irreale dalla variabilità della luce riflessa. Non ci sono punti di riferimento precisi. Non ci sono angoli retti, non c’è nulla che abbia inizio o fine, perché – è la lezione della lady dell’architettura mondiale, unica donna insignita del Premio Printzker – «ci sono altri 359 gradi, perché fermarsi ad uno?». E, ancora: “La vita non è fatta su carta millimetrata, non è una griglia», per spiegare la necessità di esplorare e sperimentare nuovi concetti di urbanistica, così come aveva fatto lei, giovanissima, folgorata dalle astrazioni di Kazimir Malevich. Lavori impossibili da eseguire, come più volte le è stata lanciata l’accusa da costruttori? Mere elucubrazioni della mente messe su carta come quadri? Costosissime e inutili per le tasche dei committenti? Assolutamente no. Se non bastassero le numerose opere disseminate sul pianeta, ce lo grida il terminal salernitano, assolutamente funzionale scandito com’è da ambienti per servizi – le stanze dove ospitare gli uffici amministrativi e la dogana sagomate in acero come cabine di uno yacht – e dall’aerea serpentina di passerelle atta ad ospitare il flusso dei passeggeri delle imbarcazioni da crociera o dei traghetti e che culmina affusolata come la prua di una nave verso l’altrove.
Nella “pancia” dell’ostrica si è protetti come in un grembo materno, non c’è frenesia, il ritmo è battuto dalla colonna sonora di un pianoforte, l’invito è alla sosta, a un arrivederci alla città che si lascia e a un sognare la città che ci aspetta e che si intravvede, a frames, dalle vetrate sbalzate: uno spicchio di campanile, una cupola maiolicata, la fuga di tegole dei tetti del centro storico, lo skyline dei palazzi affacciati sul lungomare, un lembo ondulato di spiaggia e la sfilata dei bianchi conventi sorvegliati a vista dal castello. Il mosaico di tracce del passato normanno e saraceno e il mare, evocato ovunque, un elemento reale che si fa fantastico nella creatura marina dell’Hadid. «Sono le immagini che Zaha ha fermato durante il suo primo sopralluogo a Salerno in vista del concorso di idee per la Stazione – dice l’ex assessore all’Urbanistica Fausto Martino, che ha cavalcato, con Oriol Bohigas la bella stagione fine anni Novanta-inizio Duemila del rinascimento urbanistico della città –. Volle scoprirla da mare a bordo di una scialuppa della Capitaneria di Porto, l’unica tappa sulla terraferma la fece al Teatro Verdi; lei che amava tutte le arti lo definì un gioiello e le piaceva immaginare che il terminal sarebbe sorto a pochi metri avrebbe dialogato con la storia e la cultura».
In questo ordito tra città reale e città immateriale, in questo nuovo urbanesimo al servizio dell’immaginazione sul filo conduttore del “Public Domain” – un sito che si integrasse nella vita di un luogo e fosse condiviso dalle persone – sicuramente avrebbe storto il naso di fronte alla mole ingombrante del Crescent, il contestato e sgraziato colosso di Bofil impiantato nella monumentale piazza della Libertà, un gigante mostruoso a due passi dall’incanto rapsodico e ricco di sfumature della Stazione, aggraziata come una farfalla. «Prendete un paesaggio naturale – ripeteva la regina delle curve – non c’è nulla di regolare o piatto, ma tutti trovano questi luoghi molto piacevoli e rilassanti. Penso che dovremmo cercare di ottenere questo con l’architettura nelle nostre città. Di orribili edifici se ne vedono troppi».
Zaha Hadid, la tessitrice come la chiama Boeri, ha ricucito il rapporto di Salerno con il suo mare, ne ha forgiato una nuova relazione con quella conchiglia morbida e protettiva, ha gettato un ponte sospeso tra la città di pietra e la città interiore. La sua, dove spazio e tempo non si distinguono ma si compenetrano. Quell’edificio ultimato, insieme al Maxxi, per lei era una sorta di gesto riparatore nell’Italia della burocrazia e dei finanziamenti a singhiozzo in cui era difficile progettare e soprattutto portare a termine qualcosa. Anche la Stazione marittima, con la sua superficie di 4.500 metri spalmati su due livelli, ha avuto una gestazione dura, malgrado l’ex sindaco Vincenzo De Luca, oggi governatore della Campania, vi avesse creduto con l’obiettivo di sviluppare la naturale vocazione turistica del territorio ed investito tutte le sue forze sul geniale talento della Hadid. L’assessore all’Urbanistica Mimmo De Maio che ha seguito tutte le fasi dopo le dimissioni di Martino enuncia le tappe e gli stop, mostrando una fotografia di Pino Musi della struttura congelata, già in degrado, eppure così fascinosa: idea progettuale del 2000, posa della prima pietra cinque anni dopo, l’impresa appaltante che rinuncia all’incarico e il cantiere riaperto solo nel 2010 a seguito di nuovo affidamento, fine lavori nel 2012 e ulteriore slittamento al 2014 col risultato di una spesa di venti milioni di euro, lievitata di otto milioni rispetto agli iniziali 12,1 previsti nella prima gara del 2005. Il taglio del nastro, seppur velato di malinconia, è stata una festa, anticipata dalla visita del premier Renzi che ha salutato l’opera come il segno di un Meridione che si riscatta e crede in se stesso. Una folla di curiosi, tecnici, intellettuali, duecento architetti dello studio di Zaha Hadid capitanati dal suo socio Patrick Schumacher che ha assicurato che si continuerà nel suo segno, quello di un’architettura libera dai vincoli dell’architettura classica e da quelli meccanicistici dell’architettura funzionale. Il giorno dopo. Tutto di nuovo fermo in attesa che la gestione della struttura passi all’Autorità Portuale (Napoli o Salerno?, potrebbe passare un altro anno). Ma De Maio è ottimista: «Nel frattempo, faremo spettacoli e mostre, sicuramente ci sarà una antologica di tutti i progetti di Zaha Hadid e dei suoi dipinti coloratissimi degli anni Ottanta che descrivono il suo mondo di rimandi formali e sinampsi plastiche che appariranno poco più tardi nel primo progetto importante: la stazione dei pompieri nel campus di Vitra, a Basilea, che sembra uscita proprio da un suo quadro».
Le foto sono di Massimo Pica