“Il punto cieco” di Javier Cercas
Libri impossibili
Sono quelli dove si «narra tacendo», dove c’è un dato nascosto nel quale il lettore può insinuarsi. Insomma i romanzi veri, gli unici che valga la pena scrivere. Come insegnano Morselli e Vargas Llosa e come sostiene lo scrittore spagnolo nel suo nuovo saggio che parla di Borges, Kafka, Melville, Tomasi di Lampedusa, Cervantes
Che cos’è un romanzo, quali sono i segreti meccanismi della sua scrittura? Qual è il combustibile indispensabile che ne accende la miccia? A quali leggi risponde la fiction? E infine quanta strada ha percorso il genere romanzesco per sopravvivere sino a oggi? Se ne possono insegnare le regole? Domande sulle quali la critica ancora discute, quasi dimenticando che negli anni Settanta già si decretava la morte del romanzo. Anni fatidici, durante i quali lo scrittore varesino Guido Morselli inanellava, una dopo l’altra, le stesure dei romanzi maturi, cambiando genere narrativo di volta in volta, sperimentando, mostrando un eclettismo originalissimo, ricominciando da capo dopo ogni rifiuto editoriale, senza mai arrendersi, ignaro del suo destino di autore completamente postumo (emblema dell’inedito per eccellenza). E tuttavia, quando non poteva più saperlo, sarebbe approdato a uno dei più raffinati marchi editoriali italiani, Adelphi, entrando nell’empireo dei migliori scrittori del Novecento italiano, tradotto e discusso nelle principali lingue estere. Se oggi Morselli potesse raccontare la breve parabola delle sue creazioni, penserebbe ancora – come ebbe a dire – che «Oggi il romanzo non è nella letteratura, è la letteratura»? Ci saprebbe smontare e rimontare la combinazione di ogni suo libro – come fece per esempio in Contro-passato prossimo, nell’Intermezzo critico, ovvero Conversazioni dell’editore con l’autore – parlando di anti- letteratura, di contro storia, di contro passato?
La fattura di un romanzo sta all’autore come un abito cucito perfettamente su misura, con le pieghe giuste, le cuciture invisibili ai più, certi misteriosi espedienti, degni di un abile sarto, che si adattano a una precisa morfologia corporea ma non ad altre. Si può dire che ci siano anche punti oscuri? punti ciechi? Perché no? Nel suo libro di Lettere a un aspirante romanziere, lo scrittore latino-americano Vargas Llosa (1936) insegna che a volte «narrare tacendo» è la segreta alchimia con la quale, trasformando il non detto in attesa, si spinge il lettore a intervenire attivamente nella elaborazione della storia con congetture e supposizioni. Sarebbe, questo, uno dei modi più ricorrenti a disposizione dei narratori per «far spuntare il vissuto nelle storie», vale a dire dotarle di potere di persuasione. Il dato nascosto o narrato per omissione lo si può chiamare in tanti modi, ma ancora una volta lo scrittore chiama in causa direttamente il lettore, ovvero l’aspirante romanziere: «se lei non ha un nome più grazioso da dare a questo procedimento».
Ebbene c’è chi il nome, più o meno grazioso, lo ha trovato: il saggio di Vargas Llosa è stato scritto nel 1997; a distanza di quasi un ventennio, lo scrittore spagnolo Javier Cercas (1962, nella foto a destra), rispondendo forse a quell’invito esplicito, ha coniato il termine “punto cieco” e ne ha dato una accurata, interessante, piacevolissima analisi, partendo da se medesimo e dai propri romanzi, e successivamente da esempi quali i libri di Borges, Kafka, Melville, Tomasi di Lampedusa, Cervantes, lo stesso Vargas Llosa (Il punto cieco, Guanda, 162 pagine, 17 euro). Che cosa accomuna tutti? Quel sottile spazio di ambiguità, quella crepa, quella maglia rotta nella rete dove il lettore può intrufolarsi, infiltrarsi a fondo e senza paura quasi come uno speleologo, addentrandosi in meandri dove partecipare in presa diretta all’avventura della creazione, dell’invenzione della parola. In definitiva è il lettore, e non soltanto lo scrittore, a creare il libro. In questo modo, un libro non esiste in se stesso, ma nella misura in cui qualcuno lo legge: un libro è soltanto “una partitura” che ciascuno interpreta a suo piacere. Ipotesi singolare e affascinante, condivisibile: se tanti lettori, o meglio tutti i lettori lo sapessero, ne fossero consapevoli, al mondo, folle sterminate di consumatori di libri formerebbero una comunità felice e attiva di coautori, di coprotagonisti della Scrittura, l’occupazione più esaltante che si possa inventare.
Sull’avventura di scrivere romanzi, il giovane Cercas aveva a lungo ragionato insieme al suo amico e traduttore, nonché scrittore egli stesso, Bruno Arpaia, in forma di conversazione (Guanda 2013), dove provocatoriamente ma con acume aveva dichiarato: «il compito dello scrittore è mentire, ma mentire per arrivare, attraverso la menzogna, a una verità superiore». E aveva spiegato, con dovizia di esempi, la sua peculiare teoria del romanzo moderno, un genere dal dna meticcio proprio per questa sua capacità di ingoiare tutto: il romanzo è un ibrido, il genere dei generi, che sin dalla nascita non ha fatto che cercare di appropriarsi e annettersi tutti i generi, fagocitando di volta in volta la poesia, la filosofia, il giornalismo, la saggistica. E soprattutto mescolando finzione e realtà. C’erano, tre anni fa, tutte le premesse del saggio odierno: «Mi piacerebbe scrivere un saggio, che si dovrebbe intitolare Il punto cieco, in cui vorrei spiegare come tutti i romanzi ne abbiano uno….».
Ora, come dobbiamo leggere i romanzi di Cercas, Soldati di Salamina (2003), Anatomia di un istante (2010), L’impostore (2014), per citare i più conosciuti e amati dal pubblico? Come leggere Don Chisciotte, Moby Dick? Una ibridazione di generi, un misto di fiction e fact, un territorio dove coesistono intrattenimento, strumenti di indagine esistenziale, conoscenza umana e ironia, morale e metafisica, dubbi e contraddizioni, letteratura e anti letteratura, domande senza risposte e mezze verità. Ma soprattutto massima complessità formale e massima tensione stilistica, perché il romanzo è forma, e pertanto la bontà della storia che racconta dipende dalla forma in cui è raccontata. Che cos’è dunque un romanzo o che cosa, oggi, dovrebbe essere? «Sembra un libro di storia; sembra anche un saggio; sembra anche una cronaca; o un reportage giornalistico; a tratti sembra un vortice di biografie parallele e contrapposte che girano attorno a un crocevia della storia; a volte sembra perfino un romanzo storico» (questa l’auto-definizione di Anatomia di un istante).
E allora quel sottile «prurito di fedeltà ai fatti» come scende a patti con la finzione? Si potrebbe citare ancora una volta Guido Morselli nell’Intermezzo: «Il racconto ha a contrassegno, e come sola giustificazione, due elementi: il dettaglio, inseguito con accanimento, perché analitica, una sommatoria di dettagli, è la nostra esperienza, anche collettiva; e una attendibilità che rasenta l’ovvio. (…) Troppo spesso ciò che ci colpisce del non-accaduto è la sua ovvietà, l’urgenza con cui la data situazione lo reclamava. Il paradosso sta dalla parte dell’accaduto: dall’altra parte se ne sta, sconfitta, quella che chiamiamo (quantunque con ottimismo) ‘logica delle cose’. La cucitura del ‘contro-passato’ sul passato, nel racconto, diventa visibile proprio nel punto dove il congruo e il sensato si sostituiscono all’incongruo e insensato». E se l’assurdità dell’accaduto può in Contro- passato dare scacco alla Storia, capovolgendo le sorti della prima guerra mondiale con la vittoria fantastorica degli Imperi centrali, grazie a una formidabile trovata, in tutti i romanzi di Morselli, genere misto di storia e d’invenzione, il prefisso fanta invade i campi della politica come della teologia e della religione, della storia umana, e il punto cieco sta in quell’impalpabile senso della fuga che è mania collettiva e domanda inevasa, menzogna e verità nascosta, fuga dalla storia (Contro-passato prossimo), fuga dal Partito (Il comunista), fuga dalla vecchiaia e dalle responsabilità (Divertimento 1889), fuga dal genere umano (Dissipatio H.G.). Fuga in definitiva da se stesso, di uno scrittore capace di ironia, elegantissimo nella forma e impeccabile nella struttura narrativa, mai autoreferenziale, al contrario capace di celarsi capovolgendo i termini autobiografici in ossessioni di portata universale. Autore di “libri impossibili”, gli unici che per Cercas valga la pena di scrivere.