Cartolina dall'America
Secondo Todorov
Lettura parallela di un saggio di Todorov e uno di Leone Piccioni su Malcom X, la violenza e la resistenza. I pregiudizi e le distrazioni del primo, risaltano a confronto con la chiarezza del secondo
Il nuovo libro di Todorov Resistenti. Storie di donne e uomini che hanno lottato per la giustizia (Garzanti Milano 2016) è certamente interessante. Se non altro per la rilevanza dei personaggi scelti che includono Etty Hillesum, Germaine Tillion, Boris Pasternak, Aleksandr Solzenicyn, Nelson Mandela e Malcom X. In aggiunta a due resistenti ancora viventi come David Schulman e Edward Snowden. In tutti questi personaggi Todorov rintraccia la volontà di resistere senza odio talvolta superando dualismi che, come nel caso di Germaine Tillion, sono davvero rari. Comportamenti che l’intellettuale bulgaro, naturalizzato francese, avvicina alla tradizione buddhista “specialmente nella versione del buddhismo tibetano, come ai giorni nostri incarnato dal quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso nato nel 1935. Il suo pensiero e la sua azione poggiano su due precetti, uno negativo e l’altro positivo”. E Todorov procede spiegando con le parole del Dalai Lama che questi due principi sono rappresentati dal “disarmo interiore attraverso la riduzione dell’odio e dalla promozione della compassione” spiegando che “il primo precetto si oppone alla logica delle rappresaglie, alimentata dal risentimento e dal desiderio di vendetta; il secondo si applica non soltanto alle vittime che ci sono vicine, ma anche ai nostri avversari”.
Nel suo saggio Todorov (nella foto) parla di intellettuali “ribelli” di varia provenienza e di varia estrazione. C’è l’olandese ebrea Etty Hillesum che si oppose al nazismo e fu internata in un campo di concentramento rifiutando di sottomettersi al clima di odio dei nazisti. Il suo amore per la vita e per il mondo combatté e annullò le pulsioni di morte dei suoi aguzzini. Non da meno fu la francese Germaine Tillion che dopo essere stata partigiana, durante il nazismo, si oppose poi al suo paese, la Francia, quando durante la guerra di Algeria praticò la tortura. Ma si oppose anche alla violenza dei colonizzati. E poi ci sono gli scrittori russi più famosi, Solzenizcyn e Pasternak che si sono opposti al regime comunista delineando un differente profilo di resistenti. “Il primo è uomo d’azione piuttosto che di contemplazione: i suoi gesti trovano significato non in quanto tali, ma nello scopo che permettono di raggiungere. Il secondo ha compiuto una scelta opposta: ha imparato ad amare la vita così com’e ha voluto comprenderla e rappresentarla senza attribuirsi un ruolo di guida”.
Infine Todorov parla di Mandela e di Malcom X. Del primo sottolinea che il suo isolamento in prigione, come per Tillion, libera il suo sguardo: “La sua lealtà è rivolta prima di tutto all’umanità, non al gruppo a cui appartiene invocando la presenza della morale nella politica e viceversa in modo tale da non distinguere più la frontiera tra le due: ciascuna è simultaneamente fine e mezzo, pensiero e vita”. Il capitolo su Malcom X invece è forse quello più debole, il più breve e quello più superficiale. Un po’ come se fosse dovuto, ma non realmente sentito. Infatti, dopo avere sottolineato la somiglianza tra Mandela e Malcom X per la loro concezione della violenza a cui nessuno dei due vuole “rinunciare incondizionatamente anche se nessuno dei due esorta a praticarla” spiega che specialmente per quest’ultimo diviene solo mezzo di autodifesa. Mentre invece è molto di più di questo.
Non mi soffermo sugli ultimi due, un professore pacifista israeliano parte di un gruppo misto israelo-palestinese, David Shulman, che sostiene i diritti civili dentro lo stato di Israele e lo statunitense Edward Snowden che rivela le malefatte della NSA (National Security Agency). L’agenzia americana, infatti, spiava non solo i cittadini, ma anche i capi di stato esteri tra cu Angela Merker. Mi astengo sul giudizio su di loro che sono oggetto di grande ammirazione da parte di Todorov come eroi resistenti, semplicemente perché le loro vicende sono ancora troppo fresche per permettermi di entusiasmarmi sul loro operato. L’elemento comune a tutti i personaggi di cui parla Todorov è proprio il rifiuto di sottomettersi ad una costrizione a cui la maggior parte della gente invece sottostà in silenzio. Ma la loro resistenza, secondo l’intellettuale, è anche un’affermazione in quanto è “una forma di lotta che uno o più individui esercitano contro un’azione fisica pubblica condotta da altri esseri umani…una reazione che si oppone al male… Chi rifiuta di sottomettersi non aspira a instaurare una nuova forza dominante… cerca di rifiutare la forza che vuole sottometterlo”.
Un saggio come si è detto, interessante anche se il tema del diritto a resistere certo non è nuovo e originale. La filosofia se ne è occupata da Kant in poi arrivando addirittura a teorizzare, come nel caso del giacobino kantiano, Johann Benjamin Erahrd verso la fine del ‘700, una teoria del cambiamento o meglio della rivoluzione proprio sulla base di principi etici. Fino a d arrivare a Hannah Arendt. Un diritto di resistenza individuale che può anche condurre su questa base a una rivoluzione cioè ad un movimento collettivo capace di ribaltare lo status quo ma solo sulla base di un principio etico individuale. Dove però non è escluso il ricorso alla violenza.
Tuttavia leggendo il libro di Todorov, in particolare la parte dedicata a Malcom X, mi è venuto in mente un altro saggio scritto alla fine degli anni ’60 da un grande intellettuale italiano: Leone Piccioni (nella foto con Ungaretti). Pubblicato nel lontano 1969 da Vallecchi e contenuto nel volume dedicato all’America, intitolato Troppa morte, troppa vita, il lucidissimo saggio su Malcom X dal titolo omonimo spicca per la sua profondità e acume nel descrivere la parabola del grande leader nero che lo portò, verso la fine della sua vita, ad avvicinarsi, tra l’altro, a certe tesi di Martin Luther King e a un ridimensionamento dell’uso della violenza. Come anche un grande film di Spike Lee, Malcom, fa notare.
Spiace tuttavia rilevare, come l’intellettuale francese non conosca il saggio italiano della cui acutezza invece avrebbe potuto fare tesoro. Cosa frequente tra gli intellettuali d’oltralpe che credono di monopolizzare il regno dell’originalità. Talvolta, anzi troppo spesso, peccando di presunzione. Anche perché quel riferimento lontano ai principi del buddhismo che rimanda a elementi culturali a noi estranei lo sento davvero come una forzatura. A Leone Piccioni, facendo tesoro del suo background culturale, è bastato quel suo essere, come si definisce egli stesso, “un cattolico liberale” per provare una pietas profonda nei confronti del grande leader nero, auspicando una simpateticità nei confronti della condizione subalterna dei neri negli Stati Uniti. E allo stesso tempo rifiutando la violenza. Parole bellissime che vale la pena di ricordare rammentando che sono state scritte solo 4 anni dopo la scomparsa del grande leader nero. Piccioni ci rammenta che alla violenza potrà solo seguire volenza e anche quando la sua genesi è spiegabile, non è mai giustificabile. Ricordando infine che non sarà questo il lascito più importante di Malcom, ma proprio quell’elemento di denuncia della violenza della segregazione e del razzismo. “Conosco, conosco anch’io cosa sia la paura nell’uomo, nell’insieme degli uomini che si fanno gente. Eppure ho visto solo l’infantile paura dipinta negli occhi d’un bimbo, paura da fargli mutare l’innocenza che possiede in orrore, in grido muto e violento… Ho visto terrorizzate e mute le folle invase, le guerre perse ho visto, le vendette sociali, le persecuzioni di razza, i vagoni piombati, i fucilati contro il sagrato della chiesa, le immagini dei campi di concentramento, chi muore denutrito che sguardo possieda, e come d’un lampo ti guardi chi s’abbatte falciato per assassinio, o perché la guerra lo schiacci. Faccio di tutto per non pensarci, lo nego, ma so in fondo, che l’uomo, perennemente, come da Lucrezio ci vien ripetuto, passa la vita a difendersi dai terrori, dalla paura, per scansare il terrore che l’accerchia, non gli da’ respiro. Se cose del genere io stesso le so, le ho provate, che dire di Malcom e della sua violenza! È un modo uno dei pochi modi, questo della violenza – forse – di riparare al terrore, di farsi terroristi di fronte al terrore , di cadere anche massacrati, ma senza più paura, anzi con certezza, anzi con visione vera, senza più veli. Alla lunga, il nuovo terrore di rimessa, pronto con la violenza a rispondere alla violenza diminuirà il terrore? Che strada di violenza ancora ci propone il mondo, e che via crucis l’America, per portare a soluzione – se mai potrà – il problema negro? Di Malcom non rimarranno verità assolute: rimarranno tante indicazioni psicologiche esatte, e resterà la sua forza nell’aver suonato la sveglia alla sua gente: ma non solo, aver forse costretto a meditare i bianchi violenti, padroni, sicuri non si sa poi di che e di cosa (di che si può essere in questi anni, nel potere, nella potenza nel possesso, sicuri?)”. Parole potenti e ancora valide nell’America di oggi, mosse da un amore forte per l’umanità e per la non violenza. Potremmo dire che i principi del resistente Piccioni, riflessi nelle azioni di Malcom, divengono qui universali.
Voglio inoltre aprire una parentesi sul titolo del volume in cui il saggio di Piccioni su Malcom X è contenuto. Infatti questo titolo brilla in generale per la sua acutezza e per la sua attualità nel descrivere l’America di oggi, fatta da uno che la ama senza riserve, ma che proprio per questo la critica: Troppa morte, troppa vita. Piccioni così lo spiega in una recentissima e bella intervista a Silvia Zoppi Garampi dal titolo Attualità del mio Novecento: “Da una parte c’è un’America lanciata in avanti, un’America del progresso, della libertà – e quella è la vita – però poi c’è troppa morte, perché ci sono rivalità estreme, addirittura anche fra i negri, ma non solo fra i negri; e quindi è una terra che può essere molto cara al cuore di qualcuno, per esempio al mio, ma bisogna riconoscere che c’è una forma di violenza sia nel successo che nella morte: troppa morte, troppa vita; e forse le due cose si possono mettere in contatto, perché chi ha troppa vita può anche darsi che rischi più facilmente la morte. La sostanza è questa”.
Ritrovo l’attualità di queste parole proprio nell’ultimo bellissimo film del regista nero americano, Spike Lee, che, giusto pochi mesi fa, per descrivere la violenza della metropoli americana di Chicago, spiega come sia concentrata nei quartieri neri del South o dell’West side, dove i neri si ammazzano tra di loro. E dove l’unico baluardo contro la violenza è rappresentato dalla parrocchia di Santa Sabina nel South side della città dove il reverendo Michael LouisPfleger, un vero resistente, non istiga alla violenza, anzi ogni giorno cerca di ripararne I danni. Chi-raq si chiama il film (una contrazione tra Chicago e Iraq) dove l’artista americano afferma che il numero morti tra i neri nella città di Chicago è superiore a quelli di tutte le forze speciali dispiegate in Iraq e in Afghanistan dal 2001 al 2013 negli stessi anni.
Infine c’è un’ultima cosa da dire a proposito di questo saggio che, confesso, trovo enormemente più interessante e originale di quello di Todorov. L’esposizione di Piccioni è leggera, armoniosa, godibile, proprio come quelle colline toscane da cui proviene che più che una caratteristica orografica rappresentano in questo caso un paesaggio dell’anima.