Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Piccole infelicità

Ogni giorno di più occorrerebbe chiedere alle istituzioni, alle università e ai motori della cultura (come i giornali, le case editrici e le associazioni): che cosa fate per i giovani?

Alcune sere giro col Moleskine in tasca. Prendo appunti sulle frasi, le dichiarazioni, le battute che sento, anche solo di sfuggita, nei locali o per strada. Alcune sono memorabili, vere e proprie sentenze. Altre le definisco “sintomatiche”. Sintomatiche di un profondo disagio che investe la piccola città in cui risiedo, ma che si allarga smisuratamente e, di più, incontrollatamente nella società di cui tutti facciamo parte, fino a toccare il cuore dell’intero mondo occidentale. Queste frasi – dette a bruciapelo, senza pensarci troppo – sono spesso dei macigni terrificanti che non solcano e non sfondano l’aria sol perché ormai i nostri timpani paiono abituati al peggio. Ogni tanto, però, suona la campana e, come nel Settimo sigillo, qualcosa di mortifero si affaccia alla consapevolezza. È l’ora. E ti sveglia.

Da un po’ di tempo credo al dovere di scrivere “reportage domestici”, esplorando la nostra Africa interna, per capire più a fondo cosa siamo, dove andiamo, verso cosa tende la nostra cultura, prima di sparare a zero sui vertici che ci dominano o sui pericoli esterni che ci soggiogano.

L’altra sera. Un ragazzo, poco meno che ventenne, con voce travagliata dal fumo che stava aspirando, sulla soglia di un pub. Dopo un momento di silenzio. «Basta… ho sete (fa uno schiocco proprio sotto la gola, mentre un sorrisetto gli squarcia il viso, a metà tra la complicità e la sofferenza), scoliamo il bancone…». Anche se priva di turpiloquio questa scena in sé, nuda, lo confesso, mi ha fatto male. È stato forse lo schiocco audace, il gesto di sfida di chi sa di andare su un patibolo autoimposto e ne gode, lo commenta. O peggio: l’ignorare tutto questo. Ignora il suo sarcasmo, non ha doppiezza. Una descrizione alla Philip Roth. Frase che poteva esser proferita invariabilmente da un Tom Joad sull’Highway 61 o da un innocente in un vicolo sbrecciato di Urbino. Elogio del degrado, far passare per bello ciò che è semplicemente attuale, quotidiano. Anzi, sembra che il quotidiano sfacelo sia la misura del bello. Descrivo il brutto e faccio bellezza. Vivo la bellezza dell’abbandono, che mi lusinga come fosse vita da vivere, entrata in una zona dello scibile falsamente più reale.

Al di là delle questioni di critica letteraria, cosa spinge un ragazzo normale a bere sodo? Cosa ci trova? Cosa si aspetta? L’esattezza del pungitopo dice: voglia di confusione, voglia di stornare da sé un peso. Di che? È sabato? No, martedì. Non è festa, non c’è una particolare ricorrenza. Non è weekend, fine delle incombenze, momento che Bataille definirebbe di dépense, di necessario dispendio. È semplicemente la normalità, e la normalità è infelice.

Devo asserire, con una buona dose di onestà, che anch’io mi sono trovato spesse volte a schioccare dita e a incitare ad un pronto beveraggio, salvo poi pentirmene. Comunque sia, capisco il ragazzo. Lo schema delle serate è il seguente: senso di frustrazione per l’immobilismo sociale e per la mancanza di relazioni autentiche, esaltazione dell’infelicità fino al suo corollario, più forte ricaduta nell’infelicità. Annientamento, portami via.

C’è un’infelicità latente, ma grande, forse enorme, mai vista storicamente parlando, perché investe la radice delle nostre esistenze a tutti i livelli e a tutte le età. Essa è data dalla chiusura e dalla solitudine in cui viviamo, come attori in un involucro che non sanno comunicare, sempre in attesa di una svolta che non si concretizza se non nel suo corrispettivo opposto, figli di un presente ingrato che lacera le aspirazioni, umilia un democratico sentimento di grandezza e lascia, soprattutto i giovani, in uno stato di inebetimento perpetuo, da nuovo Paradiso artificiale. Ma ciò riguarda anche gli anziani: sul sentiero del tramonto, se la spassano in gite improbabili, mentre agli adulti è addossato tutto il peso e le nevrosi del “far funzionare” la macchina della produzione. Giovani e vecchi borders. Adulti sovraccaricati, a costante rischio infarto, quando la politica virtuale, la politica dei proclami, dei “facciamo, abbiamo fatto” assicura che ci sono miglioramenti.

«Basta… ho sete, (schiocco) scoliamo il bancone…».

L’altra sera il nostro gruppo teatrale, fresco di patrocinio accademico, ormai incardinato nell’assetto universitario – bolli su bolli (anche in fronte, ormai) – è stato traghettato da un’aula sgangherata ad una ancor più sgangherata perché «c’è una festa, hanno pagato». Cosa? La multa preventiva. Cioè: oltre mezzanotte non si possono continuare le feste, ma se paghi è come se pagassi la multa, per cui puoi continuare a volontà. E cacci via un progetto di teatro e di serio investimento del tempo.

Faccio fatica a trovare una persona che non beve e non fuma, sigarette o erba. Al Presidente del Consiglio bisognerebbe presentare una simile relazione. La rete ammiraglia del servizio pubblico dovrebbe promuovere inchieste del genere, invece di… lo sappiamo! È l’ora di reportage domestici.

Lo stato di cose ti induce a far uso immediato di diversivi. In particolare, la droga cosiddetta leggera è devastante. Lo dicono ormai tutti gli psichiatri. Acutizza i lati negativi del carattere, deprime, comprime i pensieri in un carcere avanzato, provoca euforia illusoria, reazioni scomposte, accidia, cancella i sogni. Ma la società presente ha bisogno di droghe e alcool come correttivo. Un amico che ha vissuto qualche anno in Inghilterra mi ha raccontato dello stile di vita dei giovani londinesi: dal lunedì al venerdì lavoro, dal venerdì sera devasto totale.

Mi preme dunque chiedere alle istituzioni, alle università e ai motori della cultura (come i giornali, le case editrici e le associazioni): cosa fate per i giovani? Li considerate seriamente? Date loro speranze, anche se incerte? Li reputate come vostro patrimonio umano, culturale, intellettivo, di serio cambiamento? Sono autentici i valori che sbandierate nei vostri discorsi, nei vostri editoriali, nei vostri posti di immoto status quo, se nemmeno contemplate che al futuro – perché di questo si tratta – per aver possibilità di essere, di esistere, deve offrirsi concreta, dignitosa realtà di essere e di esistere?

È molto semplice rispondere con un consiglietto da virtuale pacca sulla spalla o «con i miei migliori auguri». È cortese, è formale. Da uomini d’ascolto. Ma è da Pilato. Lavarsi le mani è millantare di aver fatto la propria parte senza aver esaurito le forze, continuare a fingere di essere comprensivi ed esatti senza prendersi responsabilità, pur sapendo che oggi, non domani, è condannato un uomo giusto. O il futuro.

Ed è questa la cosa più brutta, più infame e, infine, più dolorosa: se quel ragazzo che schiocca le dita per andare a bere, ha i sogni lavati dal suo stesso imbarbarimento, può mai avere in mente sognare? Ha mai sentito un richiamo più alto, un’emozione che lo potesse innalzare, invece di lasciarsi sprofondare? Sa cos’è l’altezza? Ha sperimentato la logica dell’altezza? Ha mai ascoltato The Beatitudes di Martynov? Conosce la dolcezza della Madonna del riposo di Ferruzzi? Sa che il fascio di luce che investe il carro di buoi del Seminatore di Millet è qualcosa di più, un richiamo che invita alla partecipazione? Ha mai imparato a memoria anche un solo verso di Heaney? Conosce una via, una possibilità diversa?

Di questo piango.

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