Quando l'arte diventa commercio
Mucha e Barbie
Due mostre parallele, il consumo liberty (Adolphe Mucha) e il giocattolo di consumo (Barbie), il Paradiso e l'Inferno illuminano il nuovo corso del Vittoriano di Roma
Adolphe Mucha e Barbie. Una grande firma del liberty e un’icona del giocattolo. Curiosa l’accoppiata di mostre che sigilla la nuova stagione dell’Ala Brasini del Vittoriano, passata dalla gestione ventennale di Alessandro Nicosia a quella della società Arthemisia, un’azienda che punta alla leadership del settore espositivo. Diversi i protagonisti chiamati in scena, diverse le organizzazioni che le hanno promosse, diversi gli allestimenti, diversi i pubblici cui si rivolgono, diversi anche se acquistabili in abbinata con un lieve sconto i biglietti d’ingresso. Ma la regia che le propone insieme è la stessa e ci suggerisce di visitarle insieme. E dunque di metterle in qualche modo a confronto. Anche se lo scarto appare incolmabile, e indecifrabili – almeno a prima vista – i nessi e i punti di coincidenza.
Uscendo, la sensazione forte è di aver attraversato due universi speculari, due stazioni di tempo divise da anni luce di gusto, Paradiso e Inferno. Il passato remoto della Belle Époque. E il presente-futuro di un’ossessione di plastica, un miracolo di merchandising. Poi, ragionandoci su, scopri che un punto di contatto c’è: con Mucha, l’arte si scopre senza pudore merce senza rinnegare se stessa, con Barbie, una merce ben confezionata, cerca spudoratamente di incoronarsi arte e ne esibisce presunte complicità per continuare a fare moda e cassetta. Entrambi il pittore e la bambola emergono dall’universo patinato e luciferino della pubblicità. Il primo ne inventa da pioniere il linguaggio ancora in gestazione, la seconda se ne modella addosso le vesti per nascere e sopravvivere fino a entrare nel mito.
A rimetterci in questo cortocircuito di rimandi è però soprattutto Alphonse Mucha (1860-1939): una rivisitazione cui il copione di questo strambo modaiolo gemellaggio impone come compensazione uno sguardo più severo e critico. Povero Mucha, forse meritava più clemenza e complicità. Per la vocazione di artista vero e quel prodigioso talento di disegnatore inventore di forme perfezionato nella Parigi fine secolo, dove nel 1889 si trasferisce dalla Moravia a completare il suo bagaglio. Due doti che raggiungono il culmine quando il boom dell’Art Nouveau (la prima forma d’arte da mercato globale che indossando gli abiti senza pretese del design e delle icone da arredo conquista la borghesia e i salotti dell’Occidente), gli consegna la corona di re mondiale della decorazione. Ma poi paradossalmente declinano nella maniera quando la libertà del successo e le sue passioni di patriota, massone e cultore d’esoterismo si incanalano in una carriera di pittore puro lo trascinano nelle sabbie mobili di un simbolismo sovraccarico e velleitario.
Una parabola in discesa che questa mostra – oltre duecento opere scelte con grande cura e allineate in ammiccanti scenografie fine secolo: la mostra più completa che su di lui abbiamo mai visto – documenta con spietata chiarezza.
Impagabile lo spettacolo dei suoi anni di formazione e decollo a Parigi. Pagine impreziosite da vere e proprie chicche. Come le foto che raccontano la sua amicizia con Paul Gauguin, prima e dopo la fuga a Tahiti: Mucha lo ritrae come modello per uno dei suoi manifesti, e persino a gambe nude e in ciabatte mentre suona al pianoforte. Manca invece in quest’album di souvenir di Bohéme l’immagine di August Strindberg, lo scrittore nordico che lo iniziò alla massoneria e gli trasmise la passione per l’occultismo e il paranormale.
Il colpo di fortuna che lo proietta nell’agiatezza viene da un’altra amicizia, quella con Sarah Bernhardt, grande mattatrice del teatro dell’epoca che, ammaliata dalla sua abilità di disegnatore e dalle illustrazioni per libri e riviste con cui si mantiene, gli commissiona il manifesto dello spettacolo con cui sta per andare in scena. Gismonda, un drammone in costume ambientato nella Grecia medioevale, da cui Mucha trae spunto per un’affiche a suo modo rivoluzionaria: la diva incastonata in un abito di scena da esotica sacerdotessa, il nome inscritto in un arco e su un fondo a mosaico da tempio bizantino, un tripudio di colori lievi mai usati prima. I parigini ne rimangono estasiati. Una miscela di mistero e di forme aggraziate che si dilatano in seducenti ghirigori floreali: l’artista ha trovato il suo pubblico e il pubblico ha scoperto un artista che sa suggerirgli orizzonti di inedita eleganza a portata di tutte le tasche, perché le copie di quei manifesti che Mucha è chiamato a sfornare a ritmo vertiginoso e delle altre immagini a stampa con cui il pittore ne ripete i motivi diventano cimeli d’arredo da esporre in casa. E da esibire con orgoglio agli amici. Messaggi di bellezza che esaltano lo charme di figure femminili morbide e accattivanti, compagne seducenti ma caste come si conviene a alla maggioranza silenziosa ma ancora perbenista e ipocrita del tempo.
Più che donne, madonne. Come gli rimprovera con velenoso acume un disegnatore mondano su un giornale satirico, raffigurando in una vignetta una passante che si inginocchia e invoca aiuto e miracoli ad una vergine sorridente con cui Mucha reclamizzava una marchio di birra. La pubblicità gli consegna un campo sterminato d’azione e ne decreta il successo. Mucha è una firma gettonatissima: disegna mobili, suppellettili, gioielli che ancor oggi nella vetrina di questa mostra strappano incanto e stupore, per l’expo universale del 1900 che incorona Parigi capitale mondiale del gusto; i padiglioni nazionali fanno a gara per sfruttare il suo talento di designer e arredatore.
A ingaggiarlo, pure l’Austria asburgica di Francesco Giuseppe, che gli crea qualche imbarazzo perché l’impero soffoca le aspirazioni di libertà e autonomia della Cecoslovacchia, suo paese natale e questo a lui fervente patriota non va proprio giù, anche se non può rifiutare e assolve alla grande il suo incarico, accrescendo grazie a questa vetrina fama e quotazioni d’ingaggio. Il successo – questa è la lezione – impone quasi sempre un patto col diavolo e l’universo della pubblicità cui si è legato vive di queste intese col maligno.
Mucha ne è consapevole e cerca riscatto, assecondando la sua inclinazione per misticismo e idealismo, irredentismo, con un ritorno alla pittura che segna l’ultimo lungo scorcio della sua vita. Tornato a Praga realizza affreschi, vetrate che evocano lo spirito di libertà della sua gente, si cimenta in un ciclo che evoca le grandi tappe dell’epopea slava, insegue con i suoi disegni l’assenza della religione ortodossa. Insomma cerca di salvare l’anima. L’uomo e il pensatore probabilmente ci riescono. Ma il pittore, a nostro avviso fallisce. La pratica della pubblicità è una gabbia di abitudini e stereotipi da cui è difficile evadere, la sua creatività ha perso slancio, il suo talento si è intorpidito. Il rifugio nell’allegoria, la voglia di lasciare messaggi ai posteri appesantisce le sue tele. Lo rigetta all’indietro verso le rigidità dello storicismo d’accademia, le soluzioni di un simbolismo datato e fumoso che rifiuta novità, scarti di stile, sperimentazione. Persino l’incalzare drammatico del tempo. I suoi manifesti anticipano il Novecento sono scuola di alta decorazione, la sua pittura è il canto del cigno di un Ottocento defunto. Adolphe Mucha morirà nel 1939, in una Praga invasa dalle truppe tedesche.
Un giudizio troppo severo? Probabilmente sì. Anche se credo che di fronte alle opere di qualunque grande maestro mai dovremmo rinunciare alla bilancia della valutazione, addestrandoci a pesare e riconoscere ogni vuoto d’ispirazione, nessun artista ne è immune. È indubbio però che stavolta a starare un po’ la bilancia sia l’ondata di rabbia che l’altra mostra in cartellone, quella su Barbie che arriva chiavi in mano da Milano, ha fatto montar su.
Con Barbie avevo un vecchio conto da regolare. L’avevo regalata alle mie figlie convinto di avere a che fare con una bambola qualunque, un trastullo da bambine. Solo più tardi mi sono accorto di aver introdotto in casa una sorta di cavallo di Troia che avrebbe rubato loro l’ultimo beato residuo d’innocenza, proiettandole verso i capricci e gli sbalzi d’umore d’una adolescenza prematura. Perché, mettendosi dal punto di vista della Mattel, l’azienda che ne ha brevettato il copyright, questo è stato il vero colpo di genio: servirsi dei materiali e delle dimensioni di una finta bambola per dilatare oltre l’età deputata a questo tipo di giochi il piacere di possederla e consentirle di far da apripista ad un articolato universo di bisogni e consumi indotti, ad un accelerato corso di addestramento ad ogni tipo di capo griffato, dalle scarpe da ginnastica ai pantaloni alle gonne, per passare alle auto, un tempo le decappottabili oggi i Suv, agli arredi di casa e così via. Per non parlare dell’iniziazione precoce e ipocrita ai giochi e ai rapporti d’amore. Ogni Barbie chiamava in scena un fidanzato maschile, che si incarnava nei muscoli palestrati e nel mento a scucchia da Superman di un alter ego maschile formando una coppia forgiata e collaudata sul modello delle serie tv per teenagers. Insomma un’entità maligna, come avrebbe ben colto il film Mars Attack, fornendo appunto alle sue marziane alla conquista della terra le sembianze e l’andamento rigido e oscillante di una Barbie maliarda e ingannatrice pronta a sbudellarti.
Punti di vista e strumenti di difesa parziali e forse eccessivi, che però questa mostra ignora del tutto, sgranando lungo lo stretto corridoio in cui si dipana solo uno stucchevole florilegio di commenti e paragoni entusiasti di vip e personaggi che vengono dal mondo della moda, con la quale i produttori di Barbie hanno stabilito sin dall’inizio un patto d’acritica complicità, come si vede dai modellini griffati dai maggiori stilisti per rifare a questa bambola vanitosa e vorace i suoi corredini, aggiornandone forme e colori.
Perché l’aggiornamento continuo è la ricetta con cui la Mattel è riuscita a protrarre la vita della sua creatura, che ha superato i cinquant’anni d’età, meta irraggiungibile per qualunque giocattolo, Monopoli escluso. Un crisma d’immortalità che la pone fuori della Storia, come ben si vede leggendo l’albero di date che scandisce l’esistenza della Barbie, dalla fine degli anni Cinquanta a oggi, e le sue tappe d’evoluzione mettendole a raffronto con gli eventi e le tragedie della cronaca. Cadono le Torri gemelle, cade sotto i colpi di pistola la dinastia e la nuova frontiera dei Kennedy, crolla sotto altre pallottole il sogno di Martin Luther King, la Barbie ne prende atto rimuovendo ogni dramma, limitandosi a cambiar abbigliamento e acconciature di capelli e a poco a poco anche espressioni e tratti somatici, perché il mercato su cui circola questa pupazza dai capelli di nylon è diventato globale, e ogni paese, ogni etnia ha diritto ad una propria Barbie, nera per gli afroamericani, con gli occhi a mandorla per cinesi ed asiatici, le labbra più carnose per i bambini arabi. Un campionario di mutazioni che è l’unico vero guizzo di piacere che questa mostra ci concede. Insieme a qualche altra chicca a richiesta. Come le Barbie in divisa commissionate dall’Alitalia o le coppie Barbie-Ken modellate con le fattezze dei reali inglesi. Icona pubblicitaria Barbie se ne infischia delle ambizioni di unicità dell’arte. E dei nostri dubbi di consumatori ribelli.