Ella Baffoni
Le polemiche sulla mostra di Bologna

Un urlo sui muri

Di qua l'esigenza di auto-rappresentazione di una comunità (incarnata dagli street artist) e di là la tentazione commerciale di vuol dare un prezzo alla street art: due mondi inconciliabili

Ora che, passati i fasti dell’inaugurazione, si è un po’ placata la polemica sulla mostra “Street Art-Bansky & Co. L’arte allo stato urbano” (di cui Erminia Pellecchia ha parlato a lungo qui su Succedeoggi: clicca qui per leggere l’articolo) può essere il momento giusto per tentare qualche riflessione. Vogliamo conservare, restaurare, tramandare quel che di bello c’è spontaneamente sui muri della città, hanno detto i curatori e i promotori della mostra. Magari anche vendere – o regalare, come ha detto Fabio Roversi-Monaco, presidente di Genus Bononiae – le opere salvate. Bene ha fatto il Comune a respingere l’offerta, una sorta di cavallo di Troia, anche perché ha bisogno di rifarsi la faccia dopo lo sfregio della multa imposta a Alice Pasquini, Alicé: centinaia di euro per aver “imbrattato” il muro. Perché una cosa è chiara: l’intento dei promotori non era quello di far conoscere il mondo underground degli steeet artist, ma quello di farsi lustro di un’operazione culturale. Prettamente coloniale.

Come dire: opere d’arte nascono spontaneamente – occhio all’avverbio – in città, noi sì che le capiamo, e gli diamo un luogo adatto, e un prezzo. Quanto al prezzo, non c’è che da aspettare. Il povero Banksy quando ha commercializzato direttamente con un suo banchetto le sue opere le vendeva con scarso successo a 200 euro circa, ora i graffiti strappati ai muri valgono cifre paurose, ma va bene, è la gavetta di tutti gli artisti. Quanto al luogo, è qui il disvelamento dell’artificiosa operazione culturale. Come sa chi si è occupato anche superficialmente di street art, il luogo non è casuale. Quando i Comuni hanno offerto muri ai “bombolettari” la risposta non è stata mai entusiasta, il risultato mediocre. Perché quel murale va fatto lì dove viene fatto, in rapporto stretto con quel luogo, con il quartiere e i suoi abitanti. Non è un decoro, il graffito: è un urlo. Una protesta, persino un sigillo per le zone autonome: e se avete il coraggio ora sgomberate il centro sociale, abbattete il muro che tiene questo affresco. Una sfida.

Quei colori hanno un senso perché c’è una comunità che li vuole, che invita l’artista, con lui discute e divide il tempo. Di spontaneo non c’è nulla, se spontaneo significa estemporaneo. Molto, se spontaneo significa non mercificato, contro un’intenzione produttiva. Per questo mettere quest’arte a profitto, volerla “curare” come fosse una qualsiasi corrente artistica, è inutile e cieco. Addirittura restaurare le opere è considerata una sgrammaticatura forte. Quando un’opera verrà cancellata da pioggia o sole ardente, sarà il momento di farne una nuova. Nessuno è immortale nel mondo della strada, nemmeno l’arte, che ha però un grande valore misconosciuto, quello di uso.

street art11Chi voglia mantenere la memoria di quei graffiti e della comunità che li sottende – operazione certo legittima – li può fotografare. Così come fa con rispetto e maestria un fotografo come Mimmo Frassineti, da anni. Così come fanno con accanimento da collezionisti i “Cacciatori di street art” su Facebook. Quel che conta è che nessuno ne farà una merce, di quelle opere, rispettando il loro imprinting dalla nascita, fuori dal mercato, dentro un rapporto di inclusione tra liberi e uguali.

Utopia? Sì. È l’anima della street art, per questo è così vitale. Per questo la ribellione e il rigetto verso quella mostra sono stati così forti. Per questo la replica di Blu è stata così tranchant: rubate il murale che ho dipinto? via da Bologna tutte le mie opere. Non era la prima volta, del resto, Blu ha cancellato anche un graffito berlinese, quando quel luogo è stato sgomberato e venduto, da casa sociale sarebbe diventato centro commerciale.

È stato un dolore per molti, ma molti lo hanno giustificato: fossi stata bolognese sarei andata anch’io a aiutare il giovane artista a passare una mano di grigio sui suoi muri, magari piangendo. Si voleva conservare il murale del 2003 sulla facciata delle Officine Cevolani, destinate alla demolizione? Si sarebbe potuto evitarla, quella demolizione. Strapparla e museificarla – non pochi visitatori hanno notato l’effetto mortuario della museizzazione di opere “mostrificate” come fossero mummie egiziane – è un doppio affronto che non ha senso. Se non quello di dire al buon selvaggio: vieni qui, affidati, fai belle cose ma so io cosa ci vuole per te. Un rapporto coloniale, appunto.

Saranno pure selvaggi quelli dei centri sociali, ma sanno benissimo cosa ci vuole per loro, e lo praticano. La street art nasce da un’elaborazione lunga e discussa, e condivisa, e ancora discussa. Serve alla comunità: non è pubblica, non è privata, è comune e dunque straordinaria. Irriducibilmente. Ma di queste idee non c’è eco, certo, nelle università o nelle accademie, sicuramente non tra gli ambienti paludati di Genius Bononie. Che si ritrova tutta la responsabilità di aver privato Bologna di un bene comune, le opere di Blu.

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