Il mercato (viziato) della creatività
Contro i talent
Officine Pasolini, il laboratorio della canzone diretto da Tosca, ha organizzato un convegno sui talent. E gli ex concorrenti di X Factor e The Voice hanno spiegato i limiti e le trappole di quelle trasmissioni-lobby
«Vincere, in un talent, per qualcuno è la cosa peggiore che può capitare. Perché è come essere portati in cima all’Everest con l’unico fine di farti arrivare. All’inizio hai tutt’una squadra che si interessa a te, che monitora ogni tuo passo, ogni tuo respiro, che ti passa l’ossigeno. Poi, raggiunta la vetta, la squadra ti molla con la bomboletta mezza scarica e di lì in poi a scendere devi pensarci da solo». Fabio Santini è uno degli ex concorrenti di X Factor (versione italiana dello show di origine britannica The X Factor) che ha partecipato alla tavola rotonda sui talent show musicali organizzata nei giorni scorsi a Roma da Officina Pasolini e che non ha evidentemente dubbi quando parla della sua personale esperienza in quello che lui stesso definisce un vero e proprio “frullatore mediatico”, una macchina potente e veloce nella quale si rischia di diventare mero ingranaggio, ma che se utilizzata con consapevolezza può anche regalare qualche vantaggio.
Proprio questa idea del talent vissuto come esperienza consapevole è stato il fulcro del convegno moderato da Niccolò Fabi – a fare gli onori di casa è stata Tosca, coordinatore della sezione canzone di Officine Pasolini – che ha visto la partecipazione del produttore discografico Alberto Quartana, del produttore artistico Piero Fabrizi, dei critici musicali Felice Liperi e Ernesto Assante, oltre a due artisti che in anni diversi hanno preso parte al popolarissimo programma: Ambra Marie e Davide Sciortino; Chiara Dello Iacovo è stata invece una dei volti di The Voice.
È davvero possibile non farsi schiacciare dall’enorme meccanismo messo in piedi da questo tipo di format? Davide Sciortino parla addirittura di una sorta di servizio militare: «La giornata è scandita da impegni televisivi in ogni singolo istante. C’è infatti un ordine del giorno molto rigido e fitto, che prevede prove su prove, riprese su riprese. L’unico momento di libertà, l’unica ora d’aria ce l’hai per mangiare; poi di nuovo a lavorare, a suonare (ovviamente quello che ti dicono loro). Poi ci sono le riprese del brand, insomma la pubblicità e la stanza minuscola in cui ti stipano prima dell’esibizione, una stanza chiamata pollaio… immaginate voi per quale ragione. Questa mancanza di tempi e spazi umani stressa il fisico e la mente e ovviamente anche la voce. La tensione più forte però è quella dovuta alla competizione che si crea con gli altri concorrenti… e quella o te la dimentichi o soccombi».
Per Chiara Dello Iacovo The Voice è stato invece meno invasivo: «Noi non stavamo sempre con le stesse persone a cantare ininterrottamente la stessa canzone, ma la cosa che mi sconvolgeva era rendermi conto di giorno in giorno che la maggior parte dei miei colleghi pensava che dopo questa esperienza la loro vita sarebbe cambiata. È in quel momento che ho realizzato quanto possono essere pericolosi i talent, perché ti danno l’impressione di muoverti, di migliorare a prescindere, anche se non è così». E allora perché si partecipa a un talent? La questione è profonda e complessa e riguarda il non-senso di un’esperienza (talvolta) che viene vista come unica soluzione al desiderio di realizzarsi come artista in un tipo di società in cui è ormai diventato naturale che l’apparenza conti più della sostanza, o forse altre volte è solo un discorso di comodo, perché a pochi piace l’idea che trasformare la propria passione in un lavoro sia indipendente dalla ricerca della fama e del successo. «Chi riesce a vivere del proprio lavoro di artista suonando anche solo per venti persone in un locale, ha vinto, non ha bisogno di altro», ha sottolineato Ernesto Assante, mettendo però in evidenza, contemporaneamente, come il mercato musicale di questi ultimi anni sia profondamente cambiato e ragionare con i vecchi schemi non serva: «La visibilità, per un artista, è sempre stata importante, oggi come ieri. D’altra parte i Beatles si sono fatti crescere i capelli per farsi notare, ed Elvis Presley non sarebbe stato così amato se non fosse stato il personaggio che era. La cosa da tener presente è che sono cambiate le modalità. Avere dei followers è fondamentale non tanto per il numero, ma perché il rapporto tra artista e pubblico è mutato. I social media esistono, e di questo va tenuto conto. La difficoltà odierna è quella di capire dove andare, quale strada percorrere esattamente: questo perché ci troviamo in un lungo momento di passaggio, in una sorta di età di mezzo che fa da ponte tra il vecchio mondo analogico dei dischi in vinile e quello nuovo che non sappiamo come sarà. Io sono entusiasta che ci sia gente brava selezionata ai talent, anche perché se non ci fossero loro ci andrebbero solo quelli meno capaci. Penso ai talent come a una delle vie di accesso all’universo musicale, in cui si rischia magari di perdere se stessi, ma se si è consapevoli del pericolo e non ci si fa modificare, può essere anche un’esperienza interessante. Un tempo era peggio, perché c’erano solo le majors e se non si trovava un produttore non vi erano altre possibilità».
Sulla questione delle alternative, Ambra Marie ha un suo punto di vista ben preciso: «Ho partecipato a X Factor otto anni fa e la rabbia che inizialmente potevo avere per essere stata in parte sfruttata si è trasformata in consapevolezza. Anche perché ho capito tardi che delle esperienze o prendi il buono o stai a casa. Quando decisi di concorrere a questo talent suonavo, ma di mestiere facevo la barista; il talent mi sembrava un modo per fare diventare la musica la mia professione. Mia madre aveva visto la pubblicità, era il secondo anno. E così dopo qualche tentennamento ho provato. Ho fatto cinque provini prima di essere presa. Ricordo che all’ultimo chiamai il bassista dicendo: ma se mi scelgono che faccio? Fino alla fine ho avuto la sensazione di non volerlo fare. Poi però mi hanno convocata e mi hanno comunicato che ero entrata. È successo tutto così velocemente che non mi sono accorta di aver detto sì; anche perché non ti danno molto tempo per pensarci. Devi decidere subito. Ti mostrano un contratto di non so quante pagine, scritto nel solito burocratese e devi firmarlo subito, senza la possibilità di chiedere un consiglio a una persona di fiducia. O firmi o te ne torni a casa. E io ho firmato».
«Per essere in grado di dire dei no – ha detto Tosca – bisogna possedere una serie di strumenti che spesso a vent’anni nessuno ha. Officina Pasolini nasce proprio con l’intento di formare il più possibile delle individualità artistiche. L’idea di un laboratorio che lavorasse sulle capacità del singolo, sulla formazione in maniera maieutica e non quindi sulla persona vista come un mero prodotto, mi è venuta proprio dopo la mia esperienza come coach e poi come giudice in uno dei primi talent che abbiamo avuto in Italia. Decisi di abbandonare e di dissociarmi da quel tipo di esperienza quando vidi stare molto male una ragazza che avevo escluso dal gioco. Questo profondo disagio mi è stato poi raccontato da diversi ragazzi che dai talent sono approdati alla Pasolini, persone che hanno impiegato molto tempo a riprendere un normale percorso di studio e di lavoro». Eppure i talent, non solo quelli musicali, per quanto contestati sono in continuo aumento, apparentemente alternativi alle case del dolce far niente dei grandi fratelli, propinano agli italiani astri nascenti pre-confezionati e spesso programmati per autodistruggersi.
«Il problema però – ha sottolineato Sciortino – che come molti “cervelli in fuga” lavora prevalentemente all’estero, è che i talent sono l’unica occasione concreta di farsi conoscere, perché è vero che un tempo c’erano solo i produttori che potevano notarti, ma almeno all’epoca erano seri, come si dice… pochi ma buoni. Oggi partecipare a un talent è una situazione di emergenza, l’Italia è ormai un paese che non investe più nell’arte, nella creatività. Le etichette discografiche vogliono solo un prodotto che renda, ma non essendoci più educazione alla qualità, il prodotto è sempre più scadente e potrebbe cominciare a non rendere più così tanto». Gli ha fatto eco Alberto Quartana, produttore discografico: «In Italia a mancare è anche una vera cultura della scoperta, perché nei talent io ho sentito gente brava, ma non c’è più nessuno che va nei locali a scovare questi artisti in maniera diversa. E poi c’è il problema opposto: le persone che hanno partecipato a questi show non riescono a conquistarsi una credibilità nei circuiti indipendenti. Come per molti altri ambiti, nel nostro paese sono le conventicole a contare… Se la testata che ha più potere ti recensisce positivamente entri nel giro, se no sei fuori».
Ma qual è quindi la soluzione per un giovane che oggi desideri trovare il modo di emergere senza quei compromessi pericolosi di cui si è parlato? Costruire è ancora possibile? «Costruire è sempre possibile – ha risposto Niccolò Fabi – basta tenere ben presente che bisogna essere consapevoli, perché certe esperienze ci insegnano prima di tutto delle cose di noi stessi. In certi momenti storici è necessario fare uno sforzo in più. Io sono fiducioso».
Per Assante la cosa principale è «diventare il più possibile imprenditori di se stessi. Da sempre la vera sfida della creatività è arrangiarsi con gli strumenti che si hanno a disposizione, anche se apparentemente sembrano inutili. E poi bisogna fare attenzione a non confondersi quando si parla di fenomeni mediatici. I talent musicali utilizzano dei codici televisivi per parlare di musica, ma ciò che fanno è show… se oggi c’è un appiattimento della qualità e una difficoltà a scoprire nuovi artisti la colpa non è della televisione, ma delle radio che trasmettono sempre le stesse canzoni… Non posso dunque biasimare chi sceglie di partecipare a un talent. È una scelta discutibile, ma del tutto comprensibile».