Ancora su Alfonso Gatto
L’inventario delle assenze
Fu il poeta della morte come destino, che si accorge di morire nel momento in cui scopre di aver vissuto e comprende «che i giorni e le notti, le musiche e i rumori, la pioggia e il sole accadranno sempre senza di noi». Con leggerezza aerea…
Quarant’anni sono trascorsi dalla tragica morte di Alfonso Gatto avvenuta, a seguito di un incidente stradale, l’8 marzo del 1976. Di origini calabresi, nato a Salerno nel 1909 Gatto visse sempre in fuga. Non a caso ha dichiarato: «Posso dire che sono diventato scrittore o più propriamente poeta per aver sempre sentito dietro di me, dalla nascita, altre stanze, altri luoghi, altre stagioni in cui ero vissuto». Vorremmo considerarlo vivo, lui che pure fu il poeta della morte come destino: «In un momento della vita l’uomo scopre d’essere vissuto. In quel momento l’uomo di solito è pronto a morire, a lasciare la vita agli altri, perché questo veramente significa morire, accorgersi che i giorni e le notti, le musiche e i rumori, la pioggia e il sole accadranno sempre senza di noi».
Poeta e pittore, Gatto ha lasciato anche un libro di prose che ognuno, come ha scritto Francesco D’Esposito, dovrebbe tenere sempre sul comodino, Napoli N.N. (Firenze, Vallecchi 1974) . Quel libro inizia così: «Napoli ha l’amabile leggerezza di un paese senza invidia. Eppure è carica di malocchio…». E nel capitolo finale, intitolato Le anime del purgatorio, si legge: «Il napoletano sta per chiedere le ultime e supreme ragioni delle cose, ma ha paura. Si ferma, ne coglie il sospetto e l’avvertimento. Vuol sottrarre una situazione ancora umana, una presenza indesiderabile cui far buon viso. E s’ammaestra a guadagnare l’amara filosofia del possibile».
Nel suo tentativo di esorcizzare il nulla della morte attraverso il richiamo imprescindibile alla comunione dei santi, per il napoletano esistono solo le anime del purgatorio: «Il rapporto tra il finito e l’infinito non deve e non può risolversi nell’eterno castigo o nella salvezza eterna, ma restar sospeso all’intervento umano con cui i vivi aiutano i morti carcerati nel purgatorio, soccorrendoli con i propri pensieri, con le proprie preghiere, con gli avvocati e gli intercessori, loro guadagnando le indulgenze, calcolate a giorni in un tempo che tempo non è». Sono considerazioni che si ritrovano in Fate bene alle anime del purgatorio dell’amico Domenico Rea: «Questo è il paese della carità. Solo a Napoli c’è gente che si ricorda di rinfrescare le anime del purgatorio».
In uno scritto che ora si può leggere in «Galleria» del gen.-dic. 2003 Nelo Risi ha ricordato il suo incontro con Gatto del 1946 a Milano nella redazione del «Politecnico» di Vittorini e la pubblicazione di quella che era allora una «poesia d’amore», portava proprio questo titolo, e che poi in volume si sarebbe intitolata Potrebbero dirti morta. Sono considerazioni che permettono di intendere meglio il valore della sua poesia. «Forse è questo la morte, un ricordare/ l’ultima voce che ci spense il giorno» si legge in Elegia di Morto ai paesi. E il motivo ritorna nelle poesie d’amore, da Potrebbero dirti morta («I tuoi occhi sono come la giovinezza/ grandi, perduti, lasciano il mondo…») a Tu potresti apparire, non sei morta («Tu potresti apparire, non sei morta,/ non sei memoria spoglia ai nudi rami/ del novembre piovoso. Ancora porta/ la luce del crepuscolo i richiami/ dell’esser soli e del chiamarci insieme/ a distanza dei luoghi che traversa / l’ansia d’averti…»). Non a caso tra i componimenti più giustamente noti e celebrati di La forza degli occhi c’è A bassa voce con noi: «Resta il freddo da cui non ci difende/ nessuna parola che torni/ a bassa voce con noi».
La migliore poesia di Gatto ha sempre questa aerea leggerezza di un inventario di assenze, come in Parole: «Ti perderò come si perde un giorno/ chiaro di festa…». Nel recentissimo volume delle edizioni Ares che raccoglie l’intera opera poetica di Elio Fiore è una poesia dedicata ad Alfonso Gatto che ha come titolo l’ultimo verso di Un’alba,“La porta verde della chiesa è il mare” e che inizia così: «Già gli Asor Rosa del nostro tempo,/ masnada che ha graffiato/ la conoscenza della tua opera,/ tacciono e le stroncature monche./ È una schiera che non ti ha toccato./ La loro fama è passeggera…».