A proposito di “A scuola di dissenso”
Il Terrore italiano
Un saggio di Ilaria Poerio ripercorre le fasi più cruente del regime fascista. Quelle dei lager e della violenza sistematica. A ricordare ciò che fu il fascismo, contro ogni “giustificazionismo“
Che in Italia i conti con il fascismo non si siano fatti in maniera seria è ormai assodato e lo sostengono molti storici; che spesso si tenti di minimizzare certe espressioni politiche e sociali dei nostri giorni chiaramente razziste, xenofobe, sessiste, ecc con il termine riduttivo di qualunquismo, invece di utilizzare il più corretto fascismo, è altrettanto sotto gli occhi di tutti. Basti ricordare, come fanno lo storico Paul Corner nell’introduzione e Ilaria Poerio nel libro A scuola di dissenso. Storie di resistenza al confino di polizia (1926-43), 2016 – Carocci editore, 241 pagine 26€ – i famosi «villeggianti a spese dello stato», dell’ineffabile allora nostro presidente del consiglio, sotto il ventennio mussoliniano. Oppure le mitiche bonifiche, o il fatto di non aver avuto sul suolo patrio dei lager nell’accezione che si è soliti dare al termine, purtroppo ignorando che nel nostro paese ci furono campi di internamento come Fossoli, Ferramonti e altri. Forse più conosciuto quello della risiera di San Sabba dove funzionò una camera a gas e furono bruciate circa 3.500 vittime del nazi-fascismo. Tutto questo giustificazionismo, tutto questo parlare di fascismo buono da utilizzare in sede di trattativa post-bellica, ha portato ad una concezione del fascismo e dei fascisti distorta, edulcorata e a cui non basta contrapporre dati storici per scalzare dalla mente degli italiani tali concetti. In fondo «il Duce era buono e fu consigliato male». Una frase del genere non viene pronunciata da nostalgici che quel periodo lo hanno vissuto ma anche da molti giovani con una vaga idea di cosa sia stato il fascismo, di quale violenza sia stato capace il regime di quegli anni.
Il bel libro di Ilaria Poerio mette in luce la genesi e l’organizzazione del regno del terrore che venne instaurato con l’avvento del fascismo, che ispirò per larga parte Adolf Hitler. Il domicilio coatto già esisteva e veniva utilizzato per contrastare la criminalità comune e il brigantaggio ma sotto il Duce e con l’organizzazione che mise a punto il capo della polizia Arturo Bocchini, raggiunse una perversa precisione che costò ben 27.752 anni di “villeggiatura” a circa 15.000 tra uomini e donne sparsi in 262 località. A subire il confino non furono solo i grandi dirigenti dei partiti che si opponevano, bastava non essere d’accordo anche senza fare nulla di eclatante, per correre il rischio di subire una condanna. Bastava un semplice sospetto, il non essere allineato con le idee politiche oppure anche solo contrari all’assurdità della “razza” o perché ritenuti deviati o “persona pericolosa” e quindi possibili turbatori dell’ordine fascista. Il confino venne così comminato anche agli antifascisti non militanti, agli “strozzini, truffatori, rancorosi di ogni genere, pederasti, trafficanti di valuta, corrotti, fascisti a scopo di lucro, fascisti in disgrazia, allarmisti, testimoni di Geova, zingari, pentecostali, levatrici accusate di procurato aborto, calunniatori del regime.”, in pratica tutti e a cui si aggiunsero poi anche gli etiopi. D’altronde si poteva condannare con un processo fittizio, equivalente a nessun processo, nonché in base alla voce pubblica per la quale «si intende la possibilità di denunciare chiunque alle autorità di Ps e quindi di essere denunciati da chiunque. La voce pubblica può essere sufficiente alla condanna senza necessità alcuna che essa sia avvalorata da qualsivoglia prova di reato». E così dopo gli omicidi di autorevoli oppositori, Matteotti, i fratelli Rosselli, Giovanni Amendola e altri, il regime passa a mettere “ordine” nella società. Il controllo esasperato della vita degli italiani, i più giovani forse conoscono meglio quello esercitato dalla Stasi nella Ddr che quello del ventennio fascista a cui furono sottoposti anche i loro avi, doveva servire a far procedere speditamente il consenso verso la causa fascista.
Ma fu qui che il Duce e i suoi accoliti sbagliarono i calcoli. Rinchiudere tutti insieme gli antifascisti fu un grave errore. Essi si organizzarono e dettero vita a piccole comunità dove la solidarietà, con qualche eccezione, la faceva da padrona. La condivisione degli spazi stretti portava a condividere non solo il pane e il poco companatico ma anche le idee, i libri e la cultura. E così nacquero e crebbero oppositori ancora più convinti; rafforzarono le idee coloro che erano antifascisti anche senza avere una ideologia alle spalle, perché si può stare fermi ma non inerti. Ilaria Poerio si occupa principalmente di quelle scuole di dissenso che vennero create sulle isole: Favignana, Lampedusa, Lipari, Pantelleria, Ponza, Tremiti, Ventotene e Ustica, in condizioni quindi ancor più stranianti per chi subiva la condanna. Già l’isola in sé, a maggior ragione se piccola, dà un senso di chiusura, di luogo ristretto da cui è difficile andar via. Immaginiamoci come si potesse sentire un qualsiasi giovane antifascista colà confinato.
Un libro ricco, denso, che può integrare le conoscenze di chi il confino lo ha conosciuto nella tanta memorialistica resistenziale pubblicata dal dopo guerra ad oggi, utile per chi il confino non sappia cosa sia e chi non sa cosa vuol dire vivere in uno stato di polizia che controlla ogni mossa di ogni singolo cittadino e dove lo stato di diritto è, per norma, cancellato. Utile in questi tempi anche per chi non comprende che un certo mondo fatto di prevaricazione, chiusura verso l’altro, quale esso sia, è sempre presente nella nostra vita. Chi ha avuto la sventura di leggermi saprà che per me anche i saggi hanno una trama, e anche per i saggi parlarne più del dovuto toglie al lettore il piacere della scoperta o riscoperta, in questo pagine vi verrà svelato o rammentato un mondo che qualcuno ancora si ostina a rimpiangere senza sapere di cosa parla.