“Mio padre era fascista” di Pierluigi Battista
Padre e figlio divisi dalla Storia
Ha il merito di suscitare una forte partecipazione il toccante libro del celebre giornalista dedicato alla figura paterna e alla sua relazione con lui. Contrapposizione, consapevolezza, rimpianto sono i sentimenti che si snodano in una intensa narrazione
Pierluigi Battista ha scritto un libro per lui molto drammatico e molto sofferto, e per noi molto bello e intrigante, con una piena partecipazione alle vicende. Lo ha scritto sul padre che era stato ed era rimasto fascista: un ragazzo partito a vent’anni per andare a combattere per la Repubblica di Salò, poi per sempre legato, anche in modo un po’ fanatico, a quelle memorie tenendo davanti a sé Mussolini come una luce che non si spegne: Mio padre era fascista (Mondadori, 160 pagine, 17,50 euro).
Viene subito in mente l’esperienza simile di Carlo Mazzantini, padre di Margaret, grande scrittrice e grande amica. Anche lui partì giovanissimo per Salò A cercar la bella morte, che è il titolo del suo libro a cui, tornato fortunatamente incolume, ha affidato, in modo molto interessante, il racconto delle sue vicende. Ne Il catino di zinco anche Margaret Mazzantini, ricorda come la sua nonna fosse andata fino al treno del figlio Carlo per scongiurarlo di non partire e lo aveva trovato con altri compagni in uno stato di grande entusiasmo e di grande allegria: bravi ragazzi che si rivolgevano all’anziana donna con molta cortesia chiedendole ora una cosa ora un’altra. Bellissime pagine. (E Margaret, del resto, ha presentato con un intervento molto intenso il libro di Battista al Maxxi di Roma).
Il padre di Pierluigi avrebbe voluto che il figlio venisse su come lui quanto a scelte politiche e già dai dieci, quattordici anni, attraverso argomentazioni, esempi, sopralluoghi teneva vive le sue speranze. Ma il figlio dentro di sé si sentiva prima indifferente e poi contrario. Il padre lo portava a Latina per parlare della bonifica, grande opera del fascismo, ma la chiamava Littoria; lo portava a vedere via dei Fori Imperiali, ma la chiamava via dell’Impero; il Foro Italico era Foro Mussolini e molto sostavano davanti all’obelisco con su scolpito Mussolini Dux. Poi c’erano le opere del fascismo da far vedere al figlio: a Firenze la stazione di Santa Maria Novella dovuta all’architetto Michelucci, che da grande artista quale era seguitò a lavorare benissimo anche quando il fascismo cadde, e poi c’era da vedere l’Eur e Cinecittà e la Garbatella. C’era anche via della Conciliazione, sebbene su quell’opera ci fossero giudizi diversi, e altre cose. Ma uno degli argomenti principi del padre di Pierluigi era il campo di concentramento degli americani a Coltano. E su questo non c’era da dargli torto: ci portavano fascisti catturati in combattimento, o arrestati, persone che tentavano di passare il confine senza avere i giusti documenti, come accadde a Carlo Emilio Gadda (chi, se non lui?) che ci rimase tre giorni. Gli americani con i prigionieri normali erano duri ma non aguzzini. Però furono aguzzini e anche peggio, nei confronti di un grande poeta come Ezra Pound. È vero, Pound era un traditore, da americano aveva parlato dalla Radio fascista contro l’America e a favore degli italiani e dei tedeschi. Giusto dunque arrestarlo e poi processarlo con la prospettiva |anche della morte. Ma non metterlo in una gabbia come uno scimmione, giorno e notte in uno spiazzo oggetto di ludibrio, di insulti, di sputi da chi passava. E questo non era certo da farsi in un campo di concentramento.
Ma di fronte a un esempio toccante come questo, per Pierluigi era facile parlare dei campi di sterminio nazisti, con milioni di ebrei nelle camere a gas. Il padre cercava di sminuire, diceva che le informazioni sui campi di concentramento erano venute molto tardi e altre cose. Ma certamente era scosso, del resto i tedeschi e i nazisti non gli erano congeniali. Era un uomo molto onesto, un avvocato che si batteva generosamente in tribunale e che conosceva bene il diritto: non mischiava il fascismo alla sua professione di avvocato. I rapporti con il figlio erano sempre più duri e difficili e quando il padre invitò espressamente Pierluigi a seguirlo in una udienza in cui lui difendeva gratuitamente dei brigatisti rossi il figlio ne fu molto stupito. Pensò che lo volesse fare assistere a un suo successo come oratore, o che avesse qualche altro motivo. Non immaginava che dalle gabbie degli imputati partissero triviali insulti rivolti al padre – porco, maiale, pezzo di merda fascista… Allora Pierluigi capì (e poi dovette rifletterci) che il padre in quell’occasione non si voleva sentire solo.
Il figlio ormai era deciso, voleva sfuggire al clima della casa, voleva allontanarsi dal padre con il quale non aveva più rapporti: la sua fu una fuga. Battista racconta un episodio interessante su questo argomento: per l’ultima volta cenava a casa con i suoi molto silenziosi. A un tratto la madre si rivolse al marito: «Ci pensi che domani non ci sarà più Pierluigi?» e il padre: «Speriamo che non prenda un raffreddore». Pierluigi pensò che il padre non fosse dispiaciuto per la sua partenza, ma poi quando trovò un suo diario e da ciò che gli disse la madre, capì che aveva sofferto moltissimo.
Quasi per dare un significato più profondo alla sua uscita di casa, il figlio si schiera con le parti più estreme di sinistra per fare politica. Passa del tempo e Pierluigi, che nel frattempo è diventato un noto giornalista, si trova ad assistere alla vicenda Mattei. Mario Mattei del Msi, nella sua piccola casa a Primavalle, fu oggetto di un delitto orribile: militanti del gruppo extraparlamentare Potere Operaio cosparsero di benzina il pianerottolo dell’appartamento del Mattei e gli diedero fuoco: distrutta la casa, morti due ragazzi, figli di Mattei, di 8 e 22 anni. Si può immaginare come il padre di Pierluigi visse questa infamia, e fu nel processo che seguì l’avvocato di Mattei. Ma la cosa non passò liscia neanche per Pierluigi che ebbe motivo di riflettere sulla violenza dei compagni della sua stessa parte politica. Se ne distanziò.
Il padre si ammalò gravemente e non parlò quasi più. I figli che lo circondavano, compreso Pierluigi, lo invitavano a parlare dei suoi ricordi come faceva sempre con piacere, «ma lui no, non raccontava più le cose della politica, non ne aveva più voglia». «“Mi hanno deluso” – disse una volta». Era stato molto legato ad Almirante e anche la morte di Almirante lo allontanò da tante memorie.
Il lungo racconto non finisce qui. Di qui parte la pagina più bella, quella che registra con una certa rapidità il ripensamento di Pierluigi, il rimorso per non essere stato al fianco del padre dando tanta importanza soltanto alle idee politiche. Questa volta è lui che si sente solo: «Ecco cosa ho patito, la fine del nostro mondo, la fine morale della cultura del dopoguerra, la fine delle ragioni che ci avevano divisi con un ardore intenso e distruttivo, e che ora mi sembravano davvero effimere, ridotte in polvere». Ma già poco prima scriveva: «Dopo la morte di mio padre ho provato un senso di colpa lancinante per non aver versato tutte le lacrime che dovevano sgorgare pietose e invece non riuscivano proprio a venir fuori». Nell’ultima pagina del libro, come per un pellegrinaggio, Pierluigi torna a vedere Coltano nella tenuta di San Rossore ma non c’è più nessun segno di quel campo di concentramento.
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Domani, 20 marzo, nell’ambito della manifestazione Libri Come, in corso a Roma, all’Auditorium Parco della Musica – Teatro Studio Borgna, si svolge alle 15 il dialogo Come Roma-Latina, le città del fascismo. Protagonisti Pierluigi Battista e Antonio Pennacchi, rispettivamente autori dei volumi editi da Mondadori Mio padre era fascista e Canale Mussolini parte seconda.