All'ex Sala delle Ciminiere
Pasolini è arte
La Cineteca di Bologna, per i quarant'anni dalla morte, ha imbastito un omaggio molto particolare a Pier Paolo Pasolini: un percorso espositivo tra la sua poesia, il suo cinema e l'arte che amava
Appunti, montaggi di scene, concatenazioni di frammenti. Spiazzante eppure affascinante come la personalità metamorfica di Pier Paolo Pasolini, la mostra che la Fondazione Cineteca di Bologna ha dedicato, nel quarantennale della morte, a un artista poliforme, duttile, versatile, poliedrico e contraddittorio, anticipatore dl concetto di miltimedialità, “a un personaggio che si muove in infiniti mondi”, una costellazione a parte nella cultura italiana del Novecento. I curatori – Marco Antonio Bazzocchi, Roberto Chiesi e Gian Luca Farinelli – l’hanno concepita come una grande officina del pensiero, invitando a seguire le tracce evidenti o celate di una creatività che si manifesta urgente nel magma di forme e linguaggi. E “Officina Pasolini” si intitola, appunto, l’omaggio al piano terra del Mambo (fino al 28 marzo), l’ex Sala delle Ciminiere trasformato in una chiesa romanica. Quasi allegoria di questo genio rinascimentale naufragato nella civiltà industriale e neocapitalistica. Non c’è un percorso cronologico. Ci si trova davanti a scatole da aprire e collegare, a caselle da percorrere come in un gioco dell’oca, un camminare sui propri passi per riannodare i fili di un labirinto dove bussole sono una serie di motivi che ritornano: il Friuli, la figura materna, il teatro greco, le borgate e i popoli lontani, le analisi del mondo borghese, i saggi sul potere neo-capitalistico, la dimensione visionaria, la presenza del sacro.
Prologo ed epilogo è Bologna, la città dove Pasolini si forma, si inizia alla poesia e all’antifascismo, scopre la storia dell’arte, fonda con Roberto Roversi e Francesco Leonetti, sulle suggestioni del saggio del suo maestro, Roberto Longhi, sulla pittura ferrarese, la rivista “Officina” di matrice gramsciana ed improntata ad un neo sperimentalismo contrapposto alla letteratura ermetica e neorealista. Bologna è la città dei continui ritorni, lo spazio “libero e laico” che ospita dibattiti su temi provocatori come censura ed erotismo, il luogo dove ambienterà, nella quinta neoclassica di Villa Aldini, “Salò”, il suo estremo atto di rappresentazione del potere. A Bologna intreccerà l’intenso e burrascoso sodalizio con Laura Betti, in mostra rappresentato da un dipinto di Deanna Frosini (1974) che li raffigura come due felini in una savana. A Bologna sarà il protagonista, il 31 maggio del 1975, di “Intellettuale”, la performance di Fabio Mauri alla Galleria d’Arte moderna, immobile, imprigionato su una sedia per due ore, mentre sulla camicia scorrono, sorta di fucilazione, flash del “Vangelo secondo Matteo”.
Ad accoglierci è la voce di Longhi che suona come quella di uno spettro nel commento di critica lucidità a due documentari ingialliti dal tempo, uno su Caravaggio, l’altro su Carpaccio. Folgorante sarà la sua lezione sulla contemporaneità della pittura antica per il giovane Pier Paolo dalla dichiarata vocazione pittorica, “gli darà gli occhiali – spiega Chiesi – per guardare la storia del nostro Paese attraverso la storia dell’arte”. “Il mio gusto cinematografico – dirà Pasolini – non è di origine cinematografica, ma figurativa… Quando le immagini sono in movimento, sono in movimento un po’ come se l’obiettivo si muovesse su loro come su un quadro”. Citazioni come tableaux vivants, esempi evidenti sono nella Ricotta, in cui vi è la riproposizione delle Deposizione di Pontormo e di Rosso Fiorentino; in Mamma Roma, l’inquadratura di Ettore sul letto del manicomio fermato come i Cristi morti di Masaccio, Mantegna, Caravaggio; o, infine, l’amato Piero della Francesca a cui rende tributo nel Vangelo. In questa prima saletta-nicchia campeggia l’altarino delle foto familiari, scatti di una piccola felicità: Pier Paolo in posa con la madre Susanna Colussi e il fratello Guido; ancora bambino con Guido su un’automobilina di legno: nella foto datata 1937 è con i compagni di classe del liceo Galvani, lui in sahariana, unico senza cravatta, minuto, il più piccolo in anticipo di un anno, come appunta Enzo Biagi in una puntata de “Il Fatto” dedicata a Pasolini. Ed eccolo, ancora, capitano di calcio della Facoltà di Lettere, il colpo di testa al pallone in volo sulle ali della poesia.
Improvviso è il colpo d’occhio della sala centrale, una cattedrale laica adornata dalla teoria dei costumi – da Medea al Decameron, da I racconti di Canterbury al Fiore delle Mille e una Notte – del “poeta anomalo” Danilo Donati: statue-icone dei miti pasoliniani in fuga nella navata, in alto un “affresco” dove troneggia il Pasolini pittore del finale del Decameron, autocelebratosi come miglior allievo di Giotto. È la stanza del mito, dei luoghi e delle figure assunte come maschere simboliche per parlare di se stesso. Narciso, Cristo, Edipo sono gli archetipi presenti nelle poesie friulane, nei testi dell’Usignolo della Chiesa cattolica, nei film. Ogni mito ne incrocia un altro, in un complesso sistema di corrispondenze. “Narciso – sottolinea Chiesi – è vicino alla figura di Gesù, ma anche a quella della madre. A sua volta la madre ritorna nelle poesie mature e viene connessa al mito floreale della rosa, ma anche alla Maria del Figlio sacrificato che diventa, nel cinema, il Cristo rivoluzionario pianto sulla croce dalla madre reale di Pasolini”.
Sulle pareti del Mambo si sfogliano le pagine di un diario poetico-sentimentale. Ecco il Friuli, terra dell’adorata mamma, scoperto alla fine degli anni Quaranta e che diventerà centrale nella sua opera. Qui, lontano dalla cultura borghese della paterna Bologna, Pier Paolo scoprirà l’incanto della campagna e la forza delle idee e delle azioni. C’è l’attenzione per la lingua orale, il dialetto che permea la prima raccolta ufficiale “Poesie a Casarsa” (1942), salutata con entusiasmo da Contini e Gatto. C’è l’impegno politico con l’iscrizione al Pci nel ’47 e la militanza fino al ’49. C’è il Friuli segreto, quella della scelta omosessuale che si riversa ne “I Quaderni rossi” e in “Atti impuri”. C’è il trauma dell’addio, lo scandalo di Ramuscello, il primo attacco giudiziario, le umiliazioni, la fuga nel 1950 a Roma, senza soldi, costretti a vivere in periferia, la madre che fa la domestica per sopravvivere. Il paradiso perduto e l’ingresso nella Città di Dite. Ecco le borgate, unico intellettuale che le vivrà con uno sguardo dentro. “Non c’è stata scelta mia, ma una specie di coalizione del destino. Io non potevo che testimoniare la borgata romana”, scriverà Pasolini della scoperta di un nuovo mondo e di una nuova lingua, il romanesco parlato dal popolo che vive nelle baracche in condizioni primitive e quasi pagane, eppure puro, inconsapevole che presto perderà la propria identità. PPP si immergerà in questa selvaggia comunità sottoproletaria, la racconterà nei picareschi romanzi “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, esaltando la vitalità selvaggia di una gioventù che vive al di fuori della storia e della morale, destinata, però, inevitabilmente alla morte. Colpisce il piccolo diario fotografico di questi anni che mostra un Pasolini inusuale, sempre sorridente, e che si apre con lui sul set di “Accattone” mentre dirige Franco Citti, tutti i personaggi in movimento tranne il suo assistente Bernardo Bertolucci.
Da una parete all’altra, di rimando a rimando. Ecco il nucleo “La madre”: quella reale, speculare al figlio, unica entità (lo coglie Angelo Novi in uno scatto), un legame di amore e angoscia, di pienezza d’affetto e di condanna alla solitudine, come grida “Supplica a mia madre”; e le madri, infelici, addolorate, che peccano per eccesso di amore, incarnate da Anna Magnani (Mamma Roma), Maria Callas (Medea), Silvana Mangano (Teorema ed Edipo Re). Ecco il segmento cristologico: i Cristi di borgata, ultimi tra gli ultimi, Accattone, Ettore, Stracci; il Cristo energico del Vangelo secondo Matteo, che butta il corpo nella lotta a difesa dei poveri, degli emarginati, dei diversi, portatore di rivoluzione che trova volto nello spagnolo Enrique Irazoqui, il Gesù più intenso della storia del cinema. Altra finestra. La tragedia classica, il tema edipico del rapporto tra padri e figli, il conflitto tra mondo arcaico, senza regole, e il moderno mondo della legge razionale instaurato da Atena: Edipo Re, Medea, Appunti per una Orestiade africana fanno da ponte a quella dimensione del Terzo Mondo, i colori, gli odori, le luci dell’India e dell’Africa, la carnalità e la sensualità da Mille e una notte, libere da ogni repressione e immerse in una cultura magica. Popoli lontani, Pasolini li ama senza nostalgia, per quello che sono, ma col terrore di vederli cambiare. E’ un amore politico: “Amo questo mondo perché non è stato ancora alienato dalla civiltà del consumo, dal capitalismo e dalla borghesia”. Come purtroppo è accaduto in Italia dove l’identità contadina e paleoindustriale è crollata, corrotta, omologata, sopravvive solo in alcuni luoghi del Sud come Napoli. Lo denuncerà, testimone sofferente e ossessivamente sollecito nell’analizzare e stigmatizzare i processi sociali, culturali e linguistici, negli Scritti corsari.
Dai miti alle maschere, quella di Totò di “Uccellacci e uccellini”, “La terra vista dalla luna”, “Che cosa sono le nuvole”: fantasioso e comico, povero e melanconico più di Charlot. Dai miti alle icone: la diva Callas con cui posa anche lui in atteggiamento da star con occhiali da sole e pantaloncini pop; Marylin Monroe, “povera sorellina, del pauroso mondo antico e del pauroso mondo moderno era rimasta solo la bellezza e tu te la sei portata via”. La bellezza da preservare contro l’imbarbarimento di una società in cui il potere economico collude con la politica. Pasolini si rifà a Dante e adotta l’immagine dell’Inferno con i suoi gironi della borghesia che alimenta le visioni di Teorema e Salò; della televisione che abbrutisce e rende indifferenti le persone e la cui metafora è la Milano-Gomorra del mai realizzato Porno-Teo-Kolossal; della “nuova preistoria” che ha la sua allegoria nel laboratorio Petrolio, l’incompiuta-testamento del poeta-regista, frammentaria come La Divina Mimesis pubblicata postuma. Vi lavorerà fino alla morte, centinaia di appunti febbrilmente tracciati nel buen retiro avvolto dal verde di Torre di Chia. Lo ferma mentre scrive, pensa, disegna a terra il profilo di Longhi, si riposa, il fotografo Dino Pedriali in una serie di ritratti in cui Pasolini mette a nudo il suo corpo e la sua anima. È una settimana prima del brutale omicidio, la mente piena di progetti. “Nun esiste la fine. Aspettamo. Qualche cosa succederà”, così doveva concludersi, con questo finale aperto, Porno-Teo-Kolossal. E la morte di Pasolini è un finale aperto, il suo ultimo paradosso. “E’ uno dei pochissimi artisti italiani a non aver subito nessuno oblio – conclude Chiesi – e l’unico che continua ad essere fonte di ispirazione per altri artisti di ogni genere e latitudine”.