Un autore da ricordare/2
Il poeta in bicicletta
Alfonso Gatto è stato anche splendido cronista sportivo. Per anni ha seguito fedelmente il Giro e il Tour. Eppure non sapeva andare in bicicletta: neanche Fausto Coppi riuscì a insegnarglielo...
Alfonso Gatto muore a Orbetello il pomeriggio dell’8 marzo del 1976 in seguito a un incidente stradale. A quarant’anni di distanza da quel giorno, la sua poesia, costruita intorno a un lirismo appassionato e a tratti sognante, a una forte urgenza etica, a una «vitalità ariosa e costruttiva», secondo un’espressione coniata qualche tempo fa da Silvio Ramat, ha bisogno ancora di essere approfonditamente studiata, forse anche al fine di essere liberata dall’etichetta di ermetismo, che troppo ha pesato su una produzione peraltro ampia e variamente articolata.
Nel quarantennale della morte ci piace ricordare il poeta de La forza degli occhi e de La storia delle vittime nella veste insolita, ma in effetti lungamente frequentata, di cronista sportivo, protagonista di un episodio, che egli stesso racconta in un articolo del giugno del 1947.
Siamo al secondo Giro d’Italia dopo la pausa bellica. Sono gli anni della rivalità tra Bartali e Coppi, delle imprese eroiche su strade appena praticabili, dell’entusiasmo genuino della gente, che nasce dalla speranza e dalla voglia di superare gli eventi terribili della guerra. Tra i corridori si muove in una larga tuta azzurra, sulla quale campeggia la scritta l’Unità, il poeta Alfonso Gatto. Ha trentotto anni, proprio come il Giro. Con la corsa ciclistica che rappresenta gli italiani ha condiviso dunque sofferenze, aspettative e illusioni. È sempre al suo fianco un narratore di successo, una delle firme allora più amate dalla gente di sinistra. Si tratta di Vasco Pratolini, inviato del Nuovo Corriere.
Alfonso Gatto segue i corridori con partecipazione emotiva ed indulgenza. Vede nelle loro azioni soffocate da un sole furioso o affaticate da impietosi temporali, nelle pedalate tristi e affannate lungo ardui tornanti e strade polverose, il segno di un’umanità viva, di atti gloriosi e sforzi leggendari che ricordano le gesta epiche degli eroi di un tempo. Il poeta è attratto da quel misto di inarrivabilità e ordinarietà che il ciclismo presenta come caratteristica costitutiva, è affascinato dall’idea che tutto quel correre è forse dato dalla volontà di inseguire qualcosa che non si riuscirà mai a raggiungere. «Mai forse nella vita – scrive in un articolo da Pieve di Cadore – avremo tanti uomini, tante donne, tanti bambini a fare ala al nostro passaggio, noi che non siamo capi di Stato o di governo, generali o cardinali, noi che non siamo rispettati o temuti ma invidiati per la nostra stessa felicità di correre dietro a un sogno».
In effetti, però, Gatto non sapeva andare in bicicletta, condizione assai strana in un’epoca in cui uomini e donne si muovevano soprattutto pigiando sui pedali. Tra i ciclisti che si lanciano lungo discese da capogiro, che scalano montagne dondolando come ballerine, un uomo che non sa andare in bici fa sicuramente notizia. E infatti, quando la voce si diffonde tra capitani e gregari della carovana, il poeta diviene il caso da additare e da guardare con commiserazione.
Lo scrive lo stesso Gatto in un articolo da Pescara, del 6 giugno, raccolto, insieme ad altre cronache del poeta dal Giro e dal Tour, in un volume del 1983, ormai introvabile, curato da Luigi Giordano per conto delle edizioni de Il Catalogo di Lelio Schiavone, la “storica” galleria d’arte a cui collaborò lo stesso poeta e che ora ospita una bella mostra di foto che lo ritraggono.
Quel giorno Coppi, «che è un bravo ragazzo» scrive Gatto, si propone in qualità di maestro. «Si immagini quale onore per me – risponde il poeta –; ma è come se un bambino che deve frequentare la prima classe abbia per maestro un professore d’Università». Il campione insiste e i due si dànno appuntamento per una lezione. Anche davanti all’insigne professore, Gatto non riesce a stare in equilibrio, ha paura di fallire, si sente inadeguato. «Mi lasci scendere», supplica. È troppo tardi, il poeta crolla per terra, mentre Coppi scuote la testa e decine di curiosi «non si azzardano nemmeno a ridere per la soggezione di vedersi lì Coppi davanti con l’aria del maestro». «Ma io so nuotare», cerca di spiegare Gatto a Coppi e agli altri, senza ottenere però nemmeno un’alzata di spalle.
«Intanto tutta la città parla e sparla di me – conclude Alfonso Gatto –, i miei colleghi non sanno come comportarsi. Ma di una cosa sono certo: che se io sapessi andare in bicicletta sarei un campione. È ridicolo che ci si serva di quella macchina da angeli per camminare come fanno tutti. Cadrò, cadrò sempre fino all’ultimo giorno della mia vita, ma sognando di volare».
Che lezione viene da questa caduta di bicicletta! E che grande esempio di giornalismo è questo! Non tiene conto forse di quei princìpi che vengono insegnati nelle scuole che devono formare i professionisti dell’informazione, ma l’articolo è straordinariamente pieno di forza vitale, di umanità, di una curiosità che riesce a dare valore ad ogni avvenimento, anche il più futile. Coppi, vestito da maestro, e Alfonso Gatto, con l’aria dell’alunno un po’ discolo, rappresentano un’immagine che dovrebbe restare scolpita nel cuore del nostro Paese. E poi: le biciclette che diventano “macchine da angeli” e dunque non possono servire solo a camminare sono come le parole per il poeta Gatto, anche quando scrive da giornalista: non possono servire solo a comunicare, ma devono aprire nuovi orizzonti, permetterci di cadere per sognare di volare.