Lettera dall'America
La pancia di Trump
Dopo il "supermartedì", la corsa alla Casa Bianca è più chiara. E se Hillary Clinton punta al centro dell'elettorato, Donald Trump continua a nutrire la gente con quello che si vuole sentire dire e non con quello che ha bisogno di sapere
Il Super Tuesday non ci ha riservato grandi sorprese. Donald Trump e Hillary Clinton sono stati rispettivamente i trionfatori, conquistando ognuno sette stati a testa e, anche se la corsa per le presidenziali durerà ancora diversi mesi, è quasi certa la nomination di ambedue per i rispettivi partiti. Ciascuno di loro, fatti approssimativamente i conti, sembra avere già in mano il numero di delegati sufficienti per avere ufficialmente l’incarico di correre per la presidenza. Trump, che ha come avversari principali Ted Cruz e Marco Rubio, sembra non correre ormai alcun pericolo. Tantomeno Hillary la cui distanza da Bernie Sanders si sta rivelando incolmabile. Tuttavia a dispetto delle rispettive vittorie le differenze tra i due contendenti sono abissali sia sul piano delle piattaforme politiche, e questo è facilmente intuibile, sia su quello che descrive gli obiettivi dell’elettorato.
Donald Trump, infatti, ha coagulato una sorta di rabbia da parte di una fetta consistente di repubblicani scontenti ormai da anni. E questo sentimento agisce da collante nel convogliare molti voti verso di lui. Le sue vittorie che stanno spazzando via gli altri avversari sono un’estensione e un’esagerazione del sentimento proprio dei tea party rispetto ai feudi dell’establishment del partito che hanno animato e animano un GOP fortemente diviso ormai dal 2010. Ma la sua presenza non sembra ancora capace di creare un’unità dentro il partito dove grande è il malcontento nei confronti di una sua possibile nomination.
Hillary Clinton, all’opposto, costituisce invece un reale elemento di unificazione tra i democratici dopo la paura in Iowa e in New Hampshire. E il punto di unione verso una posizione moderata come la sua, a differenza di quella di Sanders, sembra determinato dallo spostamento verso sinistra creatosi con la presidenza Obama. Il suo successo è dovuto, inoltre, a una crescente diversità nel partito che le ha consentito di primeggiare in Texas proprio grazie ai voti dei latino/americani (Latinos) e a quello dei neri che le hanno permesso di raggiungere la vittoria nel sud del paese. Un voto, quello dei neri, che era stato a suo tempo già conquistato dal marito. Formalmente, vincere la nomination però non è così semplice in quanto gli altri partecipanti non sembrano voler gettare la spugna. Sanders ad esempio ha già detto che combatterà fino a luglio, mese della Convention democratica, e finanziariamente sembra averne i mezzi. Al momento però non pare avere intaccato il nocciolo duro dell’elettorato della Clinton, pescando tra le minoranze, le donne, e i meno giovani. Ha inoltre trovato un muro anche nel partito democratico fedele a Obama e a Hillary, legata a filo doppio all’attuale presidente. Inoltre ad esempio secondo gli exit polls in Virginia4 elettori democratici su 5, vorrebbero mantenere e attuare molti degli obiettivi di Obama specificando che questo è il motivo che li ha spinti a votare per la Clinton. A fianco di un Sanders incapace di allargare il proprio elettorato, c’è una Clinton che usa il suo linguaggio al punto che molti dei suoi discorsi rispecchiano quelli di Sanders, ne riutilizzano la terminologia cucendo insieme obiettivi moderati e quelli più estremi. Il tutto a suo vantaggio.
Donald Trump, d’altra parte, sfruttando le divisioni del partito repubblicano avanza in quattro stati (Tennessee, Alabama, Georgia e Massachusetts) che nelle passate elezioni del 2012 si divisero tra i tre candidati di allora. Ma anche i suoi avversari non vogliono ritirarsi e la guerra tra Rubio e Trump assume a volte toni davvero pesanti. Trump continua a sparare contro tutto e tutti. L’ultimo bersaglio è costituito da quella che definisce stampa liberal il New York Times e il Washington Post troppo protetti e contro i quali minaccia denunce. Ciononostante, continua ad avanzare anche a dispetto delle sue parole a proposito dell’ex leader del Ku Klux Klan, David Duke, che gli assicura il suo sostengo e che il milionario newyorkese in un’intervista a Jake Tapper della CNN dichiara di non conoscere. Un’associazione che nel 1991 e successivamente nel 2000 aveva respinto nella maniera più assoluta e su cui oggi, con una sorta di memory lapse, dice di non sapere niente. «Non conosco David Duke – afferma Trump – non so niente di lui». E dunque, non prendendone le distanze, indirettamente ne accetta l’appoggio. Certo, questo può essere molto seccante per il GOP ma non per il suo elettorato che ha sempre plaudito alle sue tirate razziste e misogine. Ci sono voci che circolano dentro il Senato americano e che non hanno ancora alcun riscontro secondo cui i repubblicani, se Trump vincesse la nomination, darebbero indicazioni di votare Clinton. E questo sarebbe davvero curioso. Certo è che alcuni senatori repubblicani, tra cui Robert Dold dello stato dell’Illinois, hanno dichiarato che se Trump ottenesse la nomination non voterebbero per lui. Il candidato Trump, d’altra parte, sembra non essere preoccupato minimamente di questo o delle sue contraddizioni né tantomeno di cadere nel bigottismo più retrivo. E, certo, non sarebbe il primo né l’ultimo anche in un paese democratico. Che tuttavia, come ben sappiamo, è sempre a un passo dal perdere la libertà e dal cadere nel caos. Trump ci sta mostrando i primi passi di una possibile caduta gli inferi: nutrire la gente con quello che si vuole sentire dire e non con quello che ha bisogno di sapere.