In scena all'Eliseo
Barbareschi all’asta
Luca Barbareschi racconta in scena l'avventura della sua vita: lo fa con ironia, disincanto e grande forza teatrale. Una prova da vero mattatore che inchioda il pubblico per due ore
«Siccome non mi piacevo per nulla decisi di fare l’attore per poter essere tante altre persone diverse di ogni genere» racconta Luca Barbareschi, ma paradossalmente lo fa portando in scena proprio se stesso, rivisitando la sua vita nel monologo con musiche, l’one man show di cui è anche autore Cercando segnali d’amore nell’universo che ha la regia di Chiara Noschese e accanto in scena la Marco Zurzolo Band (debutto allo scorso Festival di Spoleto, poi all’Eliseo e ora in tournée). Ma un attore, un professionista che recita, può mai essere se stesso in scena? La cosa migliore che può accadere è che il suo io diventi un personaggio, ed è proprio quello che succede felicemente in questo caso. «Si recita sempre», conferma Barbareschi.
Allora è vero che molti episodi dell’infanzia di Barbareschi bambino, prima a Montevideo in Uruguay, dove è nato, poi in Italia, col doloroso divorzio dei suoi genitori, la figura irrequieta di ingegnere e ex partigiano tutto energia di suo padre,quella di una madre spersa che comunica con lui solo attraverso i titoli dei libri che gli regala, le due zie nella cui casa è cresciuto, il collegio, poi il lavoro in America, la New York travolgente anni ’70, gli amori, le mogli, i figli, si riferiscono a avvenimenti e caratteri reali, ma allo spettatore arrivano come una storia di vita, come una dolorosa comica paradossale vicenda avventurosa, con continui colpi di scena, con cadute e risalite, e persino i momenti più drammatici, come la violenza infantile subita dal padre spirituale, hanno una valenza che esula dalla cronaca, riescono a diventare teatro e quindi a avere una propria verità di scena, che è sempre più forte di qualsiasi realtà.
Si deve questo alla costruzione e scrittura del testo, a questa autobiografia sentita ma contemporaneamente come guardata da fuori, con autoironia ebraica che gli viene dalla madre, secondo un modello narrativo affabulatorio che si rivolge direttamente allo spettatore con quell’aria subdola e complice che poteva avere Walter Chiari con le sue storielle e racconti sul filo dell’assurdo (e si veda la giornata di sci col padre di Barbareschi) mentre quando l’attore cita, inserisce brani di Eschilo o Shakespeare, di Mamet o di Lampedusa, quando ricorda l’incontro con De Niro o la volta che fu picchiato da Belushi, si può avvertire l’eco di Gassman all’asta, un gioco di bravura mattatoriale che eleva anche il proprio personaggio, lo inserisce in un’altra dimensione, quella della scena, dicendo una cosa che può essere anche finta da una parte, ma che risuona vera da tutt’altra. Non a caso, confessa, «il palcoscenico è dove ho trovato la mia sanità mentale».
Uno spettacolo che ripercorre quarant’anni tutti in scena (Barbareschi è alla viglia dei 60), senza paura mai di esporsi, senza autocelebrarsi, anzi giocando su eccessi e difetti con uno spirito paradossale che diventa esemplare, tanto da emozionare e divertire, far molto ridere e riflettere, coinvolgere e far identificare, grazie a affermazioni come «è quando si inciampa che si cresce». E lo fa per 150 minuti filati, quasi senza respiro, con un ritmo che per miracolo e bravura non viene mai meno, raccontando, recitando, cantando e suonando (la chitarra e il piano), passando da Gianni Morandi e i Pooh a James Taylor ma anche a Mozart, inseguendo tutti i suoni, gli echi, i colori alti e bassi della vita.