La polemica di Capodanno
Il pigolio di Arbasino
Arbasino va alla guerra (con un po' di ritardo?) contro Giovanni Pascoli, reo di parlare di uccelli e non di sesso. Due concezioni opposte del Novecento si scontrano
Alberto Arbasino comincia le esternazioni critiche del nuovo anno (La Repubblica, 2 gennaio 2016) prendendosela, non si sa perché, con Giovanni Pascoli, al quale imputa versi dai «connotati apparentemente sempliciotti che rivelano macchinosità spropositate». Quella di Pascoli, a detta dell’ottantacinquenne scrittore cresciuto nell’atmosfera del Gruppo 63, è una poesia di «spericolati sperimentalismi fonici», che mal si combina con la «ideologia da coltivatore diretto», con il continuo «pigolio rurale». L’autore di Fratelli d’Italia (non l’inno nazionale, ma il meno noto romanzo pubblicato appunto nel 1963) sottolinea la mancanza di sesso e guerra nel poeta di Myricae e l’eccessiva presenza di «molti nidi, rane, fonti, orti, autunni, foglie, cancelli, temporali, continui bucati, frequenti mietiture, parecchie tessitrici e capinere e civette e rondini, numerosi morticini». Ma «Giammai sesso! Né guerre!». Mentre il mondo viaggia verso il primo conflitto mondiale e la lotta di classe imperversa e la campagna è il luogo di feroci rapporti sociali, Pascoli si perde dietro i cinguettii di una marea di «pettirossi, capinere, cincie, schidionate di passeri, fringuelli, usignoli, nonché rondini e civette».
Arbasino è disturbato dalla presenza di tanti volatili e dal loro persistente cinguettio. È proprio questo pigolio che rende le poesie dell’emiliano sconcertanti e antiche, al pari delle sue vicende private («grande erudizione classica, molto vino meridionale, celibato perentorio e il notissimo attaccamento per le sorelle»), considerate «banalità da prontuario freudiano».
L’aggressione astiosa di Arbasino è gratuita e non si capisce dove voglia andare a parare, se non a relegare la poesia di Pascoli nell’ambito di un Ottocento pallido e polverosamente patriottico, di fatto ancorato ad una visione statica e superata del mondo, ad una lettura conservatrice dei rapporti di classe. Il Fanciullino insomma «funziona come calamita irresistibile verso il Poderetto».
Le cincie e i pettirossi di Pascoli invece, ma anche assiuoli e allodole (chissà perché dimenticati, così come i cani, eppure con il buon Gulì il poeta ebbe un rapporto, anche questo, ai limiti della patologia) in effetti ci portano, con buona pace di Arbasino, all’interno del Novecento, a contatto diretto con le ambiguità di un secolo che avrebbe reso più facili le nostre vite attraverso innovazioni tecniche e scientifiche, senza però essere in grado di liberarci dalla sofferenza individuale né dalla violenza che alberga nel mondo e che troverà la sua espressione definitiva nella furia nazista. La grandezza di Pascoli, la sua modernità risiede proprio nella volontà di considerare i grandi temi dell’esistenza, la straziante inquietudine che nasce dal progredire della conoscenza e dal rapporto mai risolto con gli elementi della natura, attraverso la voce dei piccoli personaggi delle sue liriche.
Attraverso lo scilp dei passeri, il vitt videvitt delle rondini, il chiù dell’assiuolo, il grido della civetta, e spesso ancor di più attraverso l’eco di questi suoni che rimane come traccia oscuramente palpitante nelle vite, Pascoli ci consegna il disegno di un universo senza scopo, nel quale il ruolo dell’uomo è quello di provare a capire, di inventare nuove formule, che mai però lo libereranno dai suoi fardelli («Noi mentre il mondo va per la sua strada, / noi ci rodiamo, e in cuor doppio è l’affanno, / e perché vada, e perché lento vada» suonano i primi versi del madrigale Il cane). Insieme il poeta dei Canti di Castelvecchio costruisce un linguaggio nuovo, che mescola cinguettii e tecnicismi, espressioni gergali e lingua letteraria, dialetto e latinismi, italo americano con le voci della natura. E’ la lingua varia e complessa, che dice la confusione del mondo, che vorrebbe mettere ordine nella realtà e che scopre in essa il perturbante: la lingua dei nostri giorni.
Il garrire delle rondini, lo zirlare dei tordi, il singulto dell’assiuolo ci consegnano alla vita del Novecento e alle sue contraddizioni.