A proposito di "Non dirlo"
Gesù, Veronesi e Platini
Sandro Veronesi legge il Vangelo di Marco come un romanzo. E ne rivela (in chiave pop) i segreti meccanismi narrativi. Un'operazione appassionata quanto disinvolta
Che cosa può spingere uno scrittore come Sandro Veronesi ad accostarsi al Nuovo Testamento, e in particolare al Vangelo di Marco, il più criptico e ostico dei Vangeli, «pur non conoscendo – per sua ammissione – né il greco né l’aramaico, pur non essendo un biblista né un teologo, e nemmeno un credente»? Considerato che poco prima di questo suo Non dirlo. Il Vangelo di Marco (Bompiani), un altro scrittore, il francese Emmanuel Carrère, si è cimentato con il Vangelo di Luca e gli Atti degli Apostoli nel fascinoso Il regno (Adelphi), forse la domanda andrebbe riformulata diversamente. Che cosa c’è nei Vangeli, al di là del loro contenuto, che seduce così tanto chi lavora con la parola scritta e la fiction (o l’autofiction)?
La risposta prova a darla lo stesso Veronesi nella premessa del libro – da cui ha tratto anche un monologo teatrale – ma è una riposta che potrebbe suonare, come in parte è, deludente: lo scrittore infatti si limita a definire il testo in questione «letteralmente entusiasmante». Tutto qui? Non proprio. L’entusiasmo provato è infatti, a ben guardare, non tanto verso il testo in sé, ma nei confronti della «fenomenale macchina da conversione» narrativa allestita da Marco per i cittadini romani. Un assunto, questo, che viene posto in primo piano per spiegare le specificità del Vangelo di Marco rispetto agli altri testi canonici del Nuovo Testamento. Ci sarebbe, in effetti, un aspetto persuasivo sotteso a tutto il racconto, che Veronesi paragona al lavoro di uno sceneggiatore che deve ottenere il consenso partecipato di un pubblico difficile. Da qui deriva anche la tesi di fondo del libro – suggestiva ma indimostrabile come quasi tutto ciò che possiamo supporre sulle scritture evangeliche – e cioè che Marco, l’autore del più antico dei quattro Vangeli e fonte diretta degli altri due sinottici, ovvero Matteo e Luca, fosse a conoscenza della cosiddetta fonte «Q».
Secondo la teoria delle due fonti, la «Q» (dal tedesco «Quelle») è una ipotetica raccolta di detti di Gesù ancora più antica del Vangelo di Marco, da cui avrebbero attinto sia Matteo che Luca, ma che lo stesso Marco secondo la tradizione filologica non avrebbe mai conosciuto. L’ipotesi di Veronesi, invece, è che Marco fosse a conoscenza di questa raccolta di detti ma non l’abbia usata volutamente, perché non funzionale agli obiettivi del suo racconto, che doveva portare progressivamente e senza forzature il pubblico romano a familiarizzare ed empatizzare con il «mistero della personalità» di Gesù, per prepararlo alla rivelazione finale. Il processo di identificazione dei romani (che non esitavano, come si sa, a dare i cristiani in pasto ai leoni), secondo Veronesi doveva essere cauto e realizzarsi attraverso l’incerto punto di vista degli apostoli, per spingere l’uditorio a credere in Cristo più di quanto ci credessero loro: da qui i continui, spazientiti riferimenti del Messia alla incapacità di capire dei suoi seguaci, alla loro incredulità e perfino stupidità, o le continue domande circa la propria identità («Ma voi, chi credete che io sia?»).
Su questo dubbio tra segreto e rivelazione, sulla contraddizione tra il manifestarsi della divinità nelle guarigioni e il divieto di proclamarne la testimonianza (il «non dirlo» che segue ad ogni miracolo), è costruito del resto il «mistero della personalità» di Cristo, da sciogliersi solo sulla Croce. Un mistero che in realtà nel Vangelo di Marco resta irrisolto, e tuttavia questa oscurità – riconosciuta dai più importanti esegeti del Nuovo Testamento – nella lettura disinvolta di Veronesi diventa, sorprendentemente, «un raggio di luce gettato a intensità crescente sul personaggio di Gesù». Per quanto il Gesù di Marco possa essere sconcertante e perciò condivisibile la confusione dei discepoli, per Veronesi dunque non c’è enigma e la complessità diventa semplificazione.
Il trucco, sembra suggerirci l’autore di Caos calmo, è concentrarsi sullo storytelling, sulla modernità di scrittura dell’evangelista, piuttosto che sui rimandi al profeta Isaia: la piena consapevolezza della tecnica narrativa, la focalizzazione sull’azione più che sulle parole, il ritmo incalzante, l’invenzione del flash-back (nel racconto della morte di Giovanni Battista), lo sconvolgente finale aperto (con il sepolcro vuoto e le donne che si rifiutano di annunciare la resurrezione di Cristo, chiudendosi nel silenzio, «perché hanno paura») sgombrerebbero così il campo da ogni dubbio teologico e filologico, cancellando tutte le ambiguità del testo. Un’interpretazione che, nonostante la sua logica, lascia francamente perplessi, a meno che non si voglia considerare questo libretto come un brillante quanto pretestuoso esercizio di narratologia, che sembra pensato piuttosto per un pubblico di lettori appena usciti dalla scuola Holden, con i suoi spiazzanti e spesso improponibili riferimenti postmoderni al cinema di Quentin Tarantino, a Matrix, ai road movie, ai telefilm di Colombo, e perfino a Platini, paragonato a Gesù per la sua imprevedibilità nel calciare i rigori!