Ricordo di un artista irregolare
Dondero e il caso
È morto Mario Dondero. Uomo speciale e grande fotografo che sapeva raccontare la vita senza la retorica della “verità assoluta“: perché faceva finta di cogliere la realtà solo nella casualità
È morto Mario Dondero. Era un uomo strano; un grande fotografo. Non inseguiva i miti né i grandi scatti: solo la realtà; anche quando non era bella. Era uno che con la sua Leica rubava i segreti della vita. Un’espressione desolata, un fiammifero che non si accende, un imbarazzo improvviso, una gioia incontenibile, una geometria casuale di forme. Non so come dire: i suoi scatti non erano mai convenzionali. Sembrava di trovarci dentro tutto quello che con gli occhi avremmo potuto vedere ma in realtà non avevamo mai visto. Come i grandi, preferiva il bianco e nero, perché i ricordi sono in bianco e nero e la fotografia vera fotografa quel che è già stato. I ricordi, insomma. Faceva reportage, non arte: Cartier Bresson gli piaceva più di David Hockney.
Ho avuto il privilegio di conoscere Mario Dondero quando dirigevo il servizio culturale de l’Unità e lui, come tanti altri fotografi, si presentava in redazione per vendere le sue foto. Lo facevano tutti, beninteso, ma i grandi (siamo negli anni Novanta) non scarpinavano per una foto o due da vendere per trenta, quarantamila lire; i grandi mandavo gli “agenti”, avevano le loro agenzie che spedivano qualcuno a vendere i servizi. E invece Mario veniva in prima persona. Gli piaceva parlare con la gente: un fattorino, un giornalista, un tipografo: non importava. Tirava fuori da un borsone sformato una fotografia per volta. «Guarda che bella», diceva. Oppure: «Ti piace questa?». E raccontava il giorno e il momento in cui aveva fatto la foto.
Ricordo nitidamente quando mi mostrò una foto di quattro medici cubani stanchi come se avessero appena finito di suturare l’intero equatore. Uno di loro guardava un altro, gli altri inseguivano le proprie chimere: «Operano a mani nude», mi spiegò Dondero e raccontò come i medici cubani all’epoca della foto (era di qualche anno prima) tenessero nelle loro mani il destino del loro popolo. Spesso anche contro le medesime strutture di potere del loro paese. Era una foto assurda e bellissima: quattro uomini sfatti contro una parete di mattonelle lucide bianche che racchiudevano in rettangolo di luce; un tavolo, qualche pezza e i loro sguardi stanchi e potenti. Nient’altro. Non credo di averla comprata, quella foto, all’epoca, perché sapevo che non avrei mai potuta usarla sul mio quotidiano. Ma non me ne volle: gliene comprai altre. Ma comunque a lui importava più raccontare. Anche se non lo diceva con queste parole, secondo me gli piaceva raccontare la luce delle persone.
Un giorno si presentò in redazione con il suo sorriso furbetto ancora più furbetto del solito. «Ho una sorpresa», mi disse. E mi regalò una copia della sua foto più celebre, lo scatto che incarna la nascita del nouveau roman: Nathalie Sarraute con un cappottino che fa tanto signora per bene; Alain Robbe-Grillet giovane giovane; Robert Pinget tutto preso a fare qualcosa d’altro; Claude Simon, Mauriac, Ollier serissimi, al centro l’editore Jerome Lindon e sulla destra a torreggiare il mio mito, Samuel Beckett. «Mi hanno detto che è la tua passione». Alludeva a Beckett, ovviamente, anche se non so chi glielo avesse detto. Lo ringraziai e gli chiesi la storia di quella foto che aveva fatto epoca ma lui mi disse spiccio: «Stavo lì, mi dissero di scattare». Eppure erano tutti timidi, riottosi… come hanno accettato di farsi fotografare? «Sai, l’importante è essere nel posto giusto al momento giusto. A me è capitato. Per caso, ma mi è capitato».
Tante altre volte l’ho incontrato dopo, e di quella foto che da allora tengo come uno dei miei beni più preziosi non abbiamo più parlato. Anche se non ero più un possibile acquirente delle sue foto, quando ci trovavamo casualmente per strada apriva la sua borsa – sempre la stessa – tirava fuori qualche immagine sgualcita e mi diceva: «Guarda che bella». Oppure: «Ti piace questa?». E mi piacevano sì, le sue foto. Perché non solo non erano retoriche, ma nemmeno lambivano la retorica dell’antiretorica, che in certi ambiti è sempre andata di moda. L’obiettivo era il suo occhio e la sua grandezza consisteva nella sua capacità di dialogare con il caso. È stato studiando i suoi scatti che ho capito come la causalità sia un genere d’arte (fotografica) che va perseguito con dedizione. Mario Dondero lo faceva. Aveva fotografato scrittori e gente comune; bambini afgani e vecchi francesi; cantanti e attori. Aveva girato il mondo in cerca di conflitti ed era partito dalla Francia gli anni del Sessantotto. Ma ogni volta portava indietro il segno (perfettamente costruito) di chi si era trovato lì per caso: sospinto da un formidabile talento nello scovare la vita.
Qualche mese fa l’ho cercato ripetutamente: Graziella Chiarcossi mi aveva parlato di una serie di foto di Dondero dedicate a Pasolini e della loro inedita bellezza. Volevo farne una mostra, ma mi dissero che non stava bene e che non sarebbe stato facile raggiungerlo. Dopo un po’ dovetti desistere. Un’occasione mancata, per me. Peccato. Spero che qualcun altro tiri fuori dal suo borsone quelle foto e dica: «Guarda che bella». Oppure: «Ti piace questa?».