Una bella mostra all'Ara Pacis
L’arte della réclame
Roma celebra Henri Toulouse Lautrec, artista raffinato ma anche illustratore d'eccezione, capace di cogliere luci e ombre della Belle Époque, anticipando cinema e fotografia
Un grande artista è sempre, a suo modo, un profeta. Guardandosi attorno spinge il suo sguardo più avanti. Ritrae il suo tempo e il tempo che verrà. Sfrutta le tecniche che il progresso scientifico gli mette a disposizione e ne propone di nuove. Esemplare il percorso creativo di Henri Toulouse Lautrec (1864/1901) che una imperdibile mostra in scena nella sale dell’Ara Pacis ricostruisce con il prezioso repertorio di multipli su carta prestato per l’occasione dal Museo di Belle Arti di Budapest: manifesti, illustrazioni, copertine di riviste, frontespizi di programmi che fanno di questo geniale pittore, morto ad appena trentasei anni, un pioniere della pubblicità e della riproduzione seriale. E un cronista unico della Parigi fine secolo, capitale della Bohème e della Belle Époque. Stagione che segna l’avvento della società di massa e amplia a dismisura il recinto elitario delle Belle Arti con l’ingresso di due nuove discipline, il cinema e la fotografia, che ne rivoluzioneranno radicalmente il linguaggio.
A cinema e fotografia Toulouse Lautrec restituisce più di quanto non rubi o prenda in prestito. Basta osservare con attenzione uno dei tanti manifesti che la mostra ci ripropone per misurare con efficace approssimazione questo saldo tra dare e avere. È un affiche, datata 1893, che celebra una delle dive più amate e gettonate dal pubblico modaiolo e dal popolino nottambulo della Parigi di allora: Jean Avril, soubrette, ballerina e intrattenitrice di straordinaria presa per la sua forza trasgressiva e la sua bellezza fuori convenzione, un volto affilato e volpino, fisico spigoloso, forme tutt’altro che vistose. Eccola qui di fronte a noi, immortalata in una sequenza dello spettacolo che l’affiche, appesa in migliaia di copie sui muri della Ville Lumiere, vuole reclamizzare: fasciata in una sfarfallante gomma arancione, un increspatura di sottoveste sollevata dalle gambe a compasso, un cappellino nero che le ondeggia sul viso, braccia e polpacci inguainate da guanti e calze dello stesso colore.
Giusto ritrovarci echi delle stampe del Settecento giapponese, che in quegli anni, con l’apertura della frontiere del Sol Levante, avevano invaso Parigi e conquistato poeti, critici, pittori: l’asimmetria della prospettiva e la molteplicità dei punti di vista, la concisione stilizzata del segno, l’uso di macchie di colore a stesura piatta. E riscoprire analogie con i quadri che Manet e Degas avevano dedicato agli spettacoli del Café Chantant e dell’opera. Ma l’effetto di una rappresentazione in presa diretta paga sicuramente un dazio ancora più forte alla fotografia. E l’accentuazione del movimento è strappata all’arte nascente del cinema. In più il disegno di Toulouse Lautrec anticipa soluzioni che queste due arti ancora in gestazione non avevano ancora sperimentato. Come l’uso dello zoom che porta in primo piano le sagome degli strumenti che accompagnano l’esibizione. O una sorta di inquadratura a grandangolo, che schiaccia a deforma i loro volumi, trasforma in una lavagna sghemba la fuga delle assi del palcoscenico. E ancora la sensazione di una ripresa inquadrata da postazioni diverse , un ritmo di sovrapposizioni da montaggio che sembra annunciare i film di Eisenstejn.
Un intreccio di rimandi e presagi ancora più vertiginoso ci aggredisce di ammirazione e stupore in un altro manifesto del 1893, studiato per propagandare la riapertura di un nuovo locale notturno molto trendy, il «Divan Japonais», impreziosito da un colpo d’ala, ormai entrato tra i trucchi dei grandi pubblicitari di oggi. Per rilanciare il locale che aveva cambiato proprietà Toulouse Lautrec non punta sul richiamo degli spettacoli, ma sul certificato di garanzia di due «testimonial» doc, che sceglie come campioni del gusto del pubblico in platea: ecco di nuovo, come spettatrice stavolta, la soubrette Jan Avril, una vip da ceto medio e popolare, e al suo fianco il noto critico di una rivista di musica colta, la cui autorevolezza da intellettuale raffinato è accentuata dall’eleganza della marsina e del cilindro, la cui esperienza è sottolineata dal morbido tocco di una lunga barba bianca. Le due sagome sono inserite in primo piano come in una sorta di fotomontaggio.
Tecnica cui i nuovi maestri della camera oscura erano a dire il vero già arrivati, come ci rivela una bellissima foto in bianco e nero, esposta in un altro siparietto della mostra. La sintesi di un autoritratto: a sinistra Toulouse Lautrec che dipinge di fronte al cavalletto, sul lato opposto lo stesso pittore che si mette in posa. Ma è invece pura anticipazione di un futuro di sfocature calcolate, ancora lontano per la fotografia, il taglio dell’inquadratura: con quella figura di cantante relegata sullo sfondo, la testa troncata a fine foglio, che la campagna pubblicitaria dà per scontata, serve solo a sottolineare che la programmazione del night non cambia. Ed è pura vertigine cinematografica il succedersi incalzante e spiazzante dei piani: il cespuglio di manici di strumenti percorsi dalle dita frenetiche degli orchestrali, la mano del direttore d’orchestra che incongrua spunta dal mucchio agitando la bacchetta, il tavolato della ribalta che sembra fondersi col pavimento della balconata.
Fu anche un pittore magistrale Henri Toulouse Lautrec. Ma il suo vero regno fu la tipografia. La sua carta vincente fu soprattutto il disegno. La capacità davvero unica di cogliere con pochi tratti e incredibili acrobazie di matita l’anima e la vita di quella città in fibrillazione dove, voltando le spalle alle aspettative di normalità e decoro della sua nobile famiglia e combattendo il dolore della genetica malattia ossea che lo aveva inchiodato alla statura di un nano, consumò una breve e tormentata. Quegli schizzi trasferiti o incisi direttamente su pietra e poi stampati in copie per tutte le tasche che molti incorniciavano e appendevano ad arredare stanze e salotti furono la chiave d’ingresso nel belmondo parigino e il segreto del suo successo e della sua popolarità. Con una diffusione di cui andava fiero.
Visti uno accanto all’altro compongono un ritratto a tutto tondo di un epoca e una capitale della cultura d’avanguardia incosciente e felice, sbronza di trasgressioni e di assenzio. I suoi svaghi e i suoi vizi, dalle corse di cavalli alle passeggiate in carrozza, dai balli sfrenati del Moulin Rouge ai postriboli in cui Lautrec trascorse intere settimane, ritraendo l’esistenza dietro le quinte della donnine qualunque che li abitavano. I suoi tic e le sue cadute di coscienza e di gusto che sbeffeggiava nella frenetica attività d’illustratore e vignettista con graffiante ironia.
La cronaca minuta che si fa Storia. Trasformando gli stimoli delle novità in futuro spendibile anche oggi. Come il monito ai suoi colleghi di pennello e mercato, che i curatori hanno appeso al muro a epilogo di questa mostra. «Nel nostro tempo – scriveva Toulouse – ci sono molti artisti che fanno qualcosa perché è nuovo. Vedono il loro valore e la loro giustificazione in questa novità. Tuttavia ingannano se stessi, la novità è raramente l’essenziale. Questo ha a che fare con una cosa sola: la rappresentazione di un soggetto meglio di quanto faccia la sua natura intrinseca».