Danilo Maestosi
Una mostra curata da Hou Hanru

L’arte Transformers

Choi Jeung-hwa, Martino Gamper, Didier Fluza Faustino, Pedro Reyes: il Maxxi punta sull'arte dei Transformers. Ma la nuova frontiera di questa ricerca non è poi così avanzata...

Transformers. Promette troppo la mostra che con questo titolo va in scena al Maxxi. Promette divertimento, ammiccando esplicitamente ai giocattoli giapponesi capaci di assumere qualsiasi forma, che hanno ispirato un ciclo di film di fantasy molto gettonato. Promette addirittura felicità, a leggere il saggio con cui il direttore del museo, Hou Hanru, che l’ha curata, la introduce, presentando i quattro autori che ha scelto a campione. Quattro interpreti di una creatività che balzando senza inibizioni da un campo all’altro, scultura, design, assemblaggi di materiali, fotografia, istallazioni, dovrebbero offrirci modelli di libertà e anticorpi per fugare ansie e problemi di una società che cambia troppo velocemente, inghiottendo nel vortice anche noi. Insomma ecco quattro ricette per scacciare la paura e affrontare la crisi, che è davvero uno dei passaggi cruciali di questo primo scorcio di Terzo Millennio.

Chai Jeong-hwaLa prima ricetta è di un coreano Chai Jeong-hwa, ultrasessantenne, incoronato da apparizioni su prestigiose ribalte internazionali, autore di forti risonanze pop: «Opere – dice il catalogo – che analizzano il valore intrinseco, nascosto sotto la superficie degli oggetti». La spiegazione dovrebbe arrivarci da una grande istallazione piazzata come prologo davanti all’atrio del Maxxi. È un gigantesco fiore di loto, un cerchio di petali di una decina di metri di diametro, costruito con teli di plastica da riciclo dipinti d’oro, che si dilata e si apre, mostrandoci una corona di pistilli minacciosi come trifidi, per poi chiudersi di colpo. Il fiore che esibisce il suo respiro, ci istruisce una didascalia. In realtà è solo il rantolare rauco e tutt’altro che poetico di un motore che aziona il congegno. Una macchina da lunapark, che fa rimpiangere quelle che animavano d’ingenua fantasia le attrazioni dei parchi dei divertimenti di una volta.

Pesca nel repertorio dell’infanzia anche la seconda istallazione: un tunnel di palloncini colorati, le estremità piegate e arricciate a vite, che il visitatore deve attraversare e potrebbe modificare a piacere, gonfiando altri palloncini o facendoli scoppiare. Non sembra un caso che nessuno ne approfitti. Ma forse è l’idea, così vecchia, in cento altre varianti, a togliere la voglia. La stessa aria di già visto che annulla l’impatto della terza istallazione: una foresta di colonne verdi realizzata impilando enormi scolapasta, anche questa, volendo, da attraversare. «La mia arte è il mio cuore», è il motto con cui Choi Jeung-hwa ci invita a condividere la sua creazione. Una complicità che spaventa davvero: e se il prezzo di questa esperienza di immedesimazione fosse di ritrovarsi un pace-maker di plastica al posto del cuore?

Martino GamperIl secondo campione di questa mini galleria di trasformer è per fortuna più parco. Un minimalista. Si chiama Martino Gamper, ha 45 anni, vive a Londra. È un designer, la sua specialità di trasmutatore consiste nel recuperare vecchi mobili, smontarli e cambiargli forma con qualche ritocco. L’assaggio con cui si esibisce è un cerchio di sedie da ufficio anni Cinquanta, l’imbottitura arricchita con altri ritagli di stoffa , le gambe a volte prolungate e rese più goffe da incastri di legno. Un arredo freaks, sgabelli che sembrano ragni, tavoli che traballano ad arte. Sicuri quelli del Maxxi che l’universo del design non offra qualche novità più allettante?

Didier Fluza FaustinoAl terzo artista, Didier Fluza Faustino, un architetto sudamericano traslocato a Parigi, il merito di un’opera che lascia almeno traccia nella memoria. È uno spicchio di boa appeso al soffitto che si specchia della gigantografia di un capolavoro del Louvre: la Zattera della Medusa di Gericault. Allude – spiega una didascalia – al dramma dei migranti che affondano durante il tragitto. Per condividerne il dramma, dovremmo esser trascinati anche noi dall’immaginazione su quella boa e immedesimarci nel calvario dei superstiti della Medusa. Senza quella tela a far da fondale emotivo, l’intera opera di Faustino perderebbe ogni senso. E già questo furto d’icona – strategia assai comune tra i fautori del postmoderno – sarebbe un peccato capitale. Il vero problema è che la citazione ci sembra concettualmente sbagliata, poco a che vedere con l’esodo e le stragi dei migranti che attraversano il Mediterraneo. Le vicende dei sopravvissuti della Medusa abbandonati a se stessi da un capitano ignavo, costretti al cannibalismo per sopravvivere grondano orrori e sensi di vergogna molto diversi dalla commozione che ha investito, per pochi giorni, l’Occidente per la foto di quel bambino annegato nel mare della Turchia. Un caso straordinario, un’eccezione nell’immaginario dei grandi disastri, e non l’ordinario massacro che oggi si ripete quasi ogni giorno.

Pedro ReyesE infine il quarto artista, l’unico che a nostro avviso sia riuscito a dare senso concreto e un sapore di vera utopia al suo intervento di riciclaggio. Pedro Reyes, un messicano, quarant’anni compiuti da poco. Smontandoli e rimontandoli ha trasformato armi, pistole, pezzi di mitragliatrice e altri ordini bellici in strumenti musicali che un congegno elettrico fa risuonare.

Non è un gran bilancio per Il Maxxi questo annaspare sulle frontiere mercuriali del contemporaneo. Senza filtro: la creatività confusa con l’arte. E nessun ambizione di inseguire la durata, raccogliere e selezionare opere che restino nel tempo a testimoniare il loro tempo, che è poi il traguardo che ogni museo alla fine deve perseguire.

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