Un classico da rileggere
L’Eden di Dostoevskij
«Il sogno di un uomo ridicolo» (appena ristampato con un commento di Andrea Caterini) va al cuore della filosofia di Dostoevskij: il Paradiso come espiazione
Nel suo saggio Tolstoj o Dostoevskij, il critico George Steiner sostiene che lo studio degli appunti e degli abbozzi dell’Idiota sia «profondamente rivelatore», da molti punti di vista. In particolare, nei primi schizzi del personaggio del principe Myškin si può comprendere che in origine il protagonista del romanzo era immaginato come una figura byroniana, con molti tratti del futuro Stavrogin, colui che nei Demoni incarnerà il «male morale assoluto». E lo stesso Dostoevskij, in uno degli abbozzi, si chiedeva: «Chi è Myškin? Un terribile mascalzone, o un misterioso ideale?». Bisogna tener presente, dunque, questa compresenza indissolubile di bene e male per cogliere appieno l’ambiguità di Myškin, che anche nella stesura definitiva, pur rappresentando il Bene assoluto, cristologico, conserverà alcune caratteristiche negative, come l’inettitudine all’azione, l’estraneità al mondo, il «prevalere della compassione sull’amore», come sottolinea lo stesso Steiner, alludendo a una possibile, nevrotica impotenza sessuale del principe, ma soprattutto quel profondo senso di colpa, che Myškin confessa di portarsi dietro da sempre.
Questa ambiguità Dostoevskij tornerà a indagare nei suoi grandi romanzi successivi, ma in particolare nel racconto Il sogno di un uomo ridicolo (ora riedito da Ianieri edizioni, traduzione di Grazia Lombardo, con introduzione e commento di Andrea Caterini). Il racconto, pubblicato in origine nel Diario di uno scrittore, nel 1877, lo stesso anno in cui Dostoevskij comincia a dedicarsi alla stesura dei Fratelli Karamazov, narra del sogno fatto dal protagonista, la notte in cui ha deciso di suicidarsi, per poi rinunciare al suo proposito a causa della compassione che si accorge di aver provato nell’incontro casuale avuto per strada con una bambina che aveva invocato il suo aiuto piangendo, ma che era stata dall’uomo scacciata con insofferenza. Pentito della sua crudeltà, il protagonista si addormenta e nel sogno si spara al cuore. Dopo la morte viene trasportato da un essere misterioso nello spazio infinito, finché si ritrova su un pianeta in tutto e per tutto uguale alla Terra. Qui l’uomo scopre una umanità libera dal peccato, che vive in una condizione edenica, ma sarà proprio la sua presenza a portare la corruzione, contagiando irrimediabilmente la purezza originaria di questo Paradiso terrestre, per cui chiederà di essere giustiziato per espiare la sua terribile colpa. Risvegliatosi dal sogno, l’uomo decide così di dedicare la sua vita alla predicazione di quella visione della Verità.
All’interno della poetica dostoevskiana, l’uomo ridicolo è, come indica giustamente Andrea Caterini nella sua lettura limpida e analitica del racconto, un fratello dell’«uomo del sottosuolo». È una prossimità, questa, che Caterini – critico letterario e scrittore – fa coincidere con il significato sinonimico che per Dostovskij hanno i termini «ridicolo» e «malato», con cui i due protagonisti si presentano ai lettori. Ma in cosa consiste questa identità semantica? Andrea Caterini parte dall’assunto che il senso del ridicolo sia, di fatto, la consapevolezza che il protagonista ha fin dalla nascita della sua inadeguatezza, della sua goffaggine, una condizione dunque spirituale prima ancora che esistenziale; la stessa che accompagna da sempre il protagonista delle Memorie del sottosuolo rispetto alla sua malattia. Vergogna e malattia che, in ultima analisi, derivano entrambe dalla (eccessiva) coscienza di sé, e dunque, dalla conoscenza del bene e del male, portata dal biblico frutto proibito che causa il peccato originale e la cacciata dall’Eden.
L’uomo dostoevskiano è dunque ridicolo in quanto cosciente di essere peccatore. Come il principe Myškin, che nella sua goffaggine (emblematica la scena in cui rompe lo splendido vaso cinese al ricevimento della generalessa Prokofievna, nonostante le raccomandazioni della padrona di casa) e nella sua malattia (l’epilessia), manifesta i sintomi del suo atavico senso di colpa, portando impresse nella sua carne le stimmate dell’uomo ridicolo e dell’uomo del sottosuolo. Come risolve dunque Dostoevskij questa antinomia apparentemente irresolubile? Come può salvarsi, in altre parole, l’uomo dalla coscienza del peccato? Per Proust lo scrittore russo non ha fatto altro che riscrivere sempre lo stesso romanzo intitolato Delitto e castigo.
Lo schema della colpa e dell’espiazione viene in effetti replicato anche nel Sogno di un uomo ridicolo: qui l’uomo attraverso il sogno (un sogno che lo scrittore russo, in anticipo su Freud, definisce significativamente come scaturito «non dalla ragione ma dal desiderio») elabora finalmente la sua colpa – quella cioè di essere peccatore e allo stesso tempo di indurre al peccato – assumendo su di sé quella dell’umanità intera («Finii per corromperli tutti!»). L’uomo ridicolo, malato, umiliato, scopre nell’abiezione Dio e – come Andrea Caterini, attraverso ripetuti e puntuali riferimenti intertestuali, dimostra – sa che non può salvarsi da sé e nemmeno con un’assoluzione, ma unicamente con il perdono del suo prossimo (in questo caso la bambina che rincontra nel finale). Un perdono che solo nell’«impossibile possibilità» della fede può essere accolto e vissuto. Perché come rivela il «misterioso visitatore» allo starec Zosima, nei Fratelli Karamazov, pur essendo tutti gli uomini colpevoli, «il Paradiso sta annidato in ciascuno di noi».