Fa male lo sport
Il sogno di Velasco
«Lo sport serve a imparare a perdere, oltre che a vincere…»: venticinque anni dopo i grandi successi, che ne è rimasto della magnifica filosofia di Julio Velasco e dei suoi campioni?
Anche l’Italia ha avuto il suo Dream Team. Un pattuglia d’uomini che dettero vita alla «squadra del secolo», un decennio di successi negli anni Novanta e uno sport, la pallavolo, che smise definitivamente di essere cenerentola. Li chiamarono Generazione di fenomeni, e la gente ancora li ricorda: Tofoli, Bernardi, Lucchetta, Giani, Cantagalli, Zorzi, Gardini, Masciarelli, Bracci… Li guidava Julio Velasco.
Alla fine dell’ottobre 1990, quindi 25 anni fa, vinsero il primo mondiale, il primo trofeo internazionale, e quando arrivarono a Malpensa dal Brasile vennero accolti da una folla di ragazzi in delirio. Giovani che poi avrebbero frequentato (o già frequentavano) palestre, centri sportivi, palazzetti; si parlò di boom del volley che lasciava così il ghetto dell’ora di educazione fisica a scuola quando il professore ne aveva voglia (l’argento al mondiale di Roma ’78 era rimasto un episodio).
L’incantesimo era cominciato un anno prima, nel 1989, quando questi giocatori andarono a prendersi il titolo europeo in Svezia, sorprendendo un po’ tutti. Da allora in poi si contarono: 3 titoli mondiali e altrettanti europei, innumerevoli edizioni della World League. Mancò l’oro di due Olimpiadi, nel ’92 e nel ’96 (nel ’97 a Velasco subentrò Bebeto), e questo rimane il più grande rammarico. Velasco ha sempre letto quelle sconfitte in un’altra chiave, inconsueta per la nostra mentalità di piagnoni in cerca di consolazione: «Lo sport serve a imparare a perdere, oltre che a vincere… Vincere non è solo battere gli avversari. Vincere invece significa superare i propri limiti: questa è la prima vittoria che uno deve cercare di fare… Io ho sempre detto che sono molto orgoglioso della nazionale che ha vinto due mondiali e due europei… ma sono altrettanto orgoglioso della squadra che ha perso l’Olimpiade di Barcellona. Per un motivo: perché ha saputo perdere. Quando noi abbiamo perso, non abbiamo detto: è colpa dell’arbitro, siamo sfortunati, la Federazione non ci ha appoggiato, è colpa di un giocatore o dell’allenatore o del dirigente. Abbiamo detto: l’avversario è stato più forte di noi, punto e basta. Noi abbiamo costruito una mentalità con la squadra combattendo quello che noi chiamiamo la “cultura degli alibi”». Una lettura dello sport (e della vita) che ha accompagnato sempre il percorso di quella squadra e del suo allenatore, una filosofia che voleva capovolgere la mentalità e il costume degli italiani che correvano, davano calci a pallone, tiravano a canestro o schiacciavano la palla entro i tre metri.
Che cosa è la cultura degli alibi? «È spiegare che non riesco a fare una cosa non perché io non ci riesco ma per una cosa per la quale io non posso fare niente, non la posso modificare. C’è sempre qualcosa di più grande che io non posso fare». Velasco scardinò questa cultura remissiva, rivoltò l’ambiente come un calzino, innestò una palingenesi. Glielo fece dire bene su Repubblica, Corrado Sannucci, che di quegli uomini e di quelle gesta, è stato il massimo cantore. Osservava il coach argentino dopo l’affermazione in Brasile: «Il mio primo lavoro… è stato quello di combattere contro la sottovalutazione del giocatore italiano, che pure avevo conosciuto a Jesi e a Modena, e che secondo tutti andava trattato in maniera differente dagli altri. Tu non ci hai capito mi dicevano agli inizi, ma io invece vi avevo capito: so che l’italiano forse non prende l’iniziativa ma quando è nella situazione risponde. Ma come, gli emigranti sono sono andati nei paesi più poveri e non sono mai morti di fame, il nonno di Cantagalli ha fatto il partigiano e lui non può fare una squadra di pallavolo?».
Questa rivoluzione culturale si esaurì a poco a poco (non solo nella pallavolo), la mentalità tornò ad essere quella di sempre, sparagnina, velleitaria, giustificazionista. È stata l’unica, grande sconfitta di quella nuova era. Forse un atteggiamento subalterno e vittimistico che è nel nostro Dna. Ci ha provato anche Arrigo Sacchi a cambiarla.
Quegli atleti e quell’allenatore furono comunque delle star. Velasco venne venerato come un santone, sebbene lui avesse parole e atteggiamenti lontani da simili figure. Non fu un Mourinho, vincente e superbo. Andava nelle redazioni dei giornali – che gli chiedevano continuamente pareri – e nelle università a spiegare il suo credo, non certo i suoi schemi. Parlava del suo lavoro e si restava affascinati dal suo pensare. Una specie di Massimo Cacciari prêt-à-porter. La sinistra lo coccolò a lungo. Lui rifiutò il corteggiamento politico e l’ipotesi di entrare in qualche lista. In seguito ha fatto anche il manager nella Lazio e nell’Inter, senza molto successo. Qualche anno fa ha scelto nuovi scenari andando ad allenare l’Iran; adesso, a 63 anni, guida la nazionale del suo paese.
Velasco aveva militato nel partito comunista ma poi lo aveva lasciato, studiava filosofia, gli mancavano sei esami per laurearsi, faceva il precettore nella stessa università, ma il lavoro poi gli fu tolto; da La Plata, città dove era nato, si rifugiò a Buenos Aires per farsi più anonimo nella grande città e sfuggire ai militari di Videla; aveva visto morire o scomparire alcuni suoi amici e del fratello minore non si ebbero notizie per due mesi; si mise ad allenare. All’arrivo in Italia, nei primi anni Ottanta, introdusse l’uso del videotape e del computer durante le partite (a Modena vinse 4 scudetti). Lui aveva in mente di organizzare il gioco e gli uomini. Quando doveva cambiare un giocatore, dava prima un’occhiata alle statistiche con i suoi collaboratori e poi decideva il da farsi. La scienza applicata alla pallavolo. Fu un tornado: abolì i lunghi ritiri collegiali in cui, andava dicendo, i giocatori dimenticano alzate, muri e schiacciate e imparano a giocare a tressette. Non è stato un coach facile, non è stato mai un compagnone dei giocatori. Non c’è mai andato a cena. Certo, non è stato un sergente di ferro. Anche i suoi slogan che hanno rafforzato il mito suo e di quel gruppo ancora oggi sembrano più una sorta di educazione culturale all’impresa che un diktat. Un po’ come fece Valerio Bianchini nel basket. Così si spiegano «gli occhi di tigre», reminiscenze di letture salgariane, che voleva vedere nei suoi giocatori. Chiedeva loro di essere concentrati e cattivi. Quegli occhi cambiarono animale quando guidò le ragazze azzurre. Aveva appena vinto i Giochi del Mediterraneo, ma l’atteggiamento della squadra non gli piacque per niente: «Non ho visto occhi di tigre ma di mucca», rimproverò le sue giocatrici. Nell’antologia velaschiana, si ricorda un’altra frase: «Gli schiacciatori non parlano dell’alzata. La risolvono». Per dire che chi vince non deve commentare gli errori altrui ma li deve risolvere.
Ma forse quella che spiega ogni cosa resta la risposta che diede quando gli chiedevano del Dream Team: «Noi non siamo la squadra dei sogni, noi siamo una squadra che sogna».